Nel ricchissimo magistero di Benedetto XVI che ci riguarda in quanto uomini, ci sono parole dedicate in modo specifico a noi in quanto politici. Nel momento in cui il Papa comunica al mondo la sua decisione di lasciare la cattedra di Pietro, sentiamo la responsabilità di ricordare, soprattutto a noi stessi, il suo insegnamento “politico” così come l’ha tratteggiato fin dalla sua prima enciclica, “Caritas in veritate”, e poi in alcuni importanti discorsi, alle Nazioni Unite, a Ratisbona, a Westminster e al Bundestag di Berlino.
Per noi cristiani impegnati in politica resta fondamentale la sua definizione del rapporto tra religione, ragione e diritto. “Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”, ha detto a Ratisbona, non considerare il contributo della religione alla vita pubblica è irragionevole, ha detto in più occasioni, sottolinenando il ruolo di “purificazione della ragione” dell’esperienza di fede. A Westminster è stato esplicito: “La religione per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico”.
La coscienza della ricchezza della tradizione in cui siamo nati ci rende doppiamente responsabili di fronte alla questione del potere. Sempre in Inghilterra il Papa poneva la grande domanda sulla democrazia: “Ogni generazione, mentre cerca di promuovere il bene comune, deve chiedersi sempre di nuovo: quali sono le esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi?”. E rispondeva che “se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient’altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia”. E al Bundestag ci ha nuovamente sfidati a cercare il fondamento etico per le scelte politiche “nella natura e nella ragione”, evitando facili scorciatoie che li deducano dal credo religioso e caricandoci integralmente della responsabilità delle nostre scelte, ammonendoci a non “cadere preda di distorsioni, come avviene quando la ragione è manipolata dall’ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana”.
Benedetto XVI, come il suo predecessore, è un grande difensore dei diritti dell’uomo, e ci ha ricordato che “nelle questioni fondamentali in cui è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta”. C’è una civiltà millenaria, nata dall’incontro di Roma, Atene e Gerusalemme, nella quale è maturata questa coscienza, fattasi diritto, dell’inviolabilità della persona umana: “Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico”.
Nel nostro fare politica ci sentiamo investiti di questa responsabilità che ha quotidianamente a che fare con i nostri limiti, i nostri errori, i nostri difetti. Ci sentiamo sostenuti in questo compito, che è una scelta libera e personale di ciascuno di noi, dall’appartenenza alla comunità cristiana, luogo in cui abbiamo ricevuto l’educazione anche alla sensibilità politica, e nel quale veniamo continuamente educati a porci la domanda sulle ragioni del nostro servizio al bene comune.
Benedetto XVI l’ha riassunto così a Berlino: “Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata concessa una sua richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace”.
Il nostro grazie a un Papa, un uomo, un governante che ci ha testimoniato questo cuore docile.