Per tanti, è il più grande teologo vivente. Per tanti altri, il più grande del secolo appena trascorso. Tanti altri ancora, poi, dicono che sia uno tra i più grandi che la Chiesa abbia mai avuto. Per questo, è facilmente intuibile come le enormi implicazioni sul terreno della fede, di cui è foriera la decisione di dimettersi, gli fossero perfettamente note. Si può, perfino, ipotizzare che tali implicazioni possano aver fatto parte di quel novero di ragioni che lo hanno convinto del fatto che lasciare avrebbe rappresentato il bene della Chiesa. Luciano Violante, ex presidente della Camera e professore di  Istituzioni di diritto e procedura penale nell’Università di Camerino, ci rivela le sue intuizioni circa gli effetti che la scelta di Benedetto XVI potrebbe produrre.



Quali valutazioni le ha suscitato la decisione del Papa?

Stare “sulla notizia”, quando si ha a che fare con fatti storici di questa dimensione, non è semplice. Si è trattato di un gesto che non può che destare rispetto e ammirazione. Un Papa che ritiene di non essere più in grado, per ragioni fisiche, di continuare nella sua missione, denota una consapevolezza che in altri settori della vita difficilmente è ravvisabile. Detto questo, si ha l’impressione che, in questa scelta, abbia fatto irruzione la modernità.



Cosa intende?

Nell’iconografia mentale di chiunque – cattolico o non cattolico, credente o non credente – il Papa è sempre stato concepito come al di sopra delle temperie della vita, una figura che esce dai confini dell’umanità per attingere direttamente al sacro. Ratzinger ha superato questo “mito” ponendoci di fronte, con una certa  “durezza”, alla dimensione umana del suo incarico. Quasi a dire: “le forze non reggono, devo fare un passo indietro”. E’ curioso come il Papa più teologo dell’ultimo secolo abbia voluto ricondurre la figura del Pontefice nei limiti della condizione umana dalla quale, sin qui, è sempre stata astratta.



Crede che nei decenni scorsi un passo del genere non sarebbe stato possibile?

Probabilmente, avrebbe rappresentato un segno di debolezza. Trent’anni fa, per esempio, un Papa che non ce l’avesse fatta, avrebbe fatto venire meno il fattore mito che circonda la figura del Pontefice. Oggi, ci sono le condizioni perché le dimissioni possano essere, invece, percepite come un atto di forza. Rispetto all’idea della ieraticità della figura del Papa, quasi non umana, è stato compiuto un passo in avanti. In sostanza, è come se Ratzinger avesse imposto la presa di consapevolezza del fatto che, nell’esercizio della sua funzione, va contemplato anche il fattore umano. E che, non riuscendo a reggerne il peso, è stato legittimo e saggio decidere di lasciare.

Eppure, al Pontefice, secondo la fede cattolica, è stato attribuito il potere di  sciogliere e di legare. Una facoltà che non può dipendere o esser messa in dubbio dalle sue capacità personali.

Non c’è contraddizione tra l’essere il Vicario di Cristo e le debolezze dell’umana persona. Tale incarico, infatti, è pur sempre stato conferito ad un uomo. Che  continua ad avere tutti i limiti degli altri uomini. L’infallibilità papale sulle questioni di fede, per intenderci, non è messa, dal punto di vista cattolico, in discussione. Ma la persona cui viene conferita tale facoltà deve essere in grado di sostenerne il fardello. Credo che ogni volta che la modernità ha fatto  arretrare i confini del sacro, il sacro si é desecolarizzato, é diventato più profondo e più puro. Nel caso specifico, il gesto di Ratzinger impone un approfondimento del mistero dell’essere Vicario di Cristo.

Secondo lei, qual è stato, in termini laici, il suo contributo principale al dibattito pubblico?

Credo che l’apporto maggiore sia stato dato dalla sua produzione intellettuale volta a contemplare il rapporto ineludibile tra la ragione e la fede. Alcuni passaggi del suo pontificato, quali quelli rispetto al rapporto con il mondo ebraico, hanno testimoniato come sia possibile dialogare con le altre confessioni e, più in generale, come sia possibile dialogare con chi la pensa diversamente senza per questo dover rinunciare alla propria identità. Mi pare, infine, che vada sottolineato il suo lavoro sulla storicità della figura di Gesù.

Ci spieghi.

Ratzinger non si è crogiolato nella figura del Gesù-Dio; ci ha spiegato la storicità della sua figura e come questa storicità rendeva più intensa,  più nuova e più sconvolgente, l’esperienza di Cristo.

 

(Paolo Nessi)

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