Un papa, questo papa, che decide di dimettersi è, in primo luogo, una ferita. Il fatto che non sia la morte a separarci dalla sua figura di pontefice, ma la sua scelta, quella di “non farcela” dinanzi ai nuovi compiti che arrivano, almeno in un primo momento non può che spaventare. Si parla, inopinatamente, di adattamento alla modernità, vedendo in ciò la normale stanchezza di una guida che prende atto, certamente con coraggio, del momento di “passare la mano”. Si realizzerebbe così l’omologazione al mondo di una Chiesa “finalmente moderna”, che pone fine ad un’anacronistica eccezione. Ma proprio qui il confronto non regge: dove sono i massimi dirigenti che, oggi come ieri, se ne vanno? Chi conosce, nel mondo, figure al vertice del potere – di qualsiasi potere – che, in un quadro istituzionalmente garantito affinché nulla intacchi il loro dominio, dopo aver diretto con indiscussa maestria, scelgono di abbandonare posto ed onori quando tutto è ancora saldamente e lucidamente nelle loro mani?  Il mondo secolare non conosce una simile scelta. Il potere viene sempre abbandonato con mestizia, sotto il peso di circostanze inevitabili, non sotto l’intuizione di servire un bene più grande, nettamente al di sopra della propria stessa persona. Non è per adattarsi al mondo moderno, ma per contestarlo nella sua radice più profonda, quella del potere, che Benedetto XVI vibra la sua sfida definitiva.



Ci vorrà tempo per capire la portata della scelta epocale di un papa che interrompe il proprio pontificato nel pieno del proprio regno e di un prestigio universalmente riconosciuto, quando anche le sue stesse forze fisiche, per quanto piagate dalla clessidra del tempo, sono ben lontane dall’impedire quella lucidità intellettuale che contrassegna ogni suo discorso e che è avvertita, per il suo rigore, anche al di fuori della comunità ecclesiale cattolica.



Eppure il minimo che si può e si deve fare per rispettare il suo gesto è prenderlo sul serio per l’orizzonte problematico che implicitamente indica. Se il nodo è quello della stanchezza personale e della conseguente percezione di un’inadeguatezza dinanzi alle sfide del mondo, il problema risiede allora nella dimensione assunta da quest’ultime: una dimensione che – proprio in quanto non concede più la possibilità di un sereno e, date le risorse della scienza medica, probabilmente lento affievolirsi della vita fisica e psichica – richiede un rinnovamento immediato dello sforzo di tutti e di ciascuno. Decidendo di lasciare il pontificato, Benedetto XVI ci rivela ampiamente la dimensione reale della sfida contemporanea e la battaglia senza mezzi termini nella quale la Chiesa universale è ingaggiata.



La modernità, abituandoci a mutamenti continui e facendo del nuovo una banale consuetudine, produce un effetto soporifero stupefacente. Ci abitua a recepire e metabolizzare ogni cosa, convinti sempre e comunque che alla fine tutto sia come prima, quando invece nulla rischia di esserlo più. Distratti dalla storia infinita di un’economia mondiale che ci fa vivere al ritmo dell’altalena delle borse, ma anche scossi dai traumatismi destabilizzanti e mortiferi dei conflitti internazionali, ci stiamo preparando a subire cambiamenti di portata incalcolabili nella logica della paternità/maternità ed in quella del fine vita, con la superficiale noncuranza dell’eterno silenzio-assenso che è il vero cloroformio culturale del relativismo contemporaneo. Il fatto cristiano, che è l’incarnazione di Cristo, è relegato nell’angolo delle memorie care senza che lo si rintracci nella storia del mondo del quale è l’anima. Tutto scorre ma è la presenza di Lui che viene meno, nell’indifferenza.

Dopo aver scosso l’universo cattolico con la parola, Benedetto XVI non può che passare, proprio come il proprio predecessore, ai gesti concreti. Se per Giovanni Paolo II questi si sono sintetizzati nella sua straordinaria volontà di esserci e di comunicare anche quando tutto il suo corpo glielo impediva (e nel fare questo si è fatto riconoscere ed amare da tutti), per Benedetto XVI, data la capacità della modernità di annettere ogni dichiarazione pontificia nella propria rubrica delle novità, anestetizzandola, il gesto più radicale diviene quello di riempire il mondo con lo scandalo della poltrona vuota. Esattamente come Giovanni Paolo II concludeva simbolicamente il suo pontificato con un “alzatevi, andiamo”, Benedetto XVI costruisce la stessa esortazione, ma in un modo ancora più radicale, adeguato al frastuono contemporaneo: obbligandoci ad alzarci. Quello che per il primo era il sacrificio di ignorare i dolori del fisico che lo minava per continuare il suo ministero, per il secondo è quello di abbandonare quest’ultimo per segnalare un’assenza nel mondo ancora più rilevante: quello di Cristo stesso. Il primo ha rinunciato al proprio stesso corpo, continuando ad esserci anche quando questo glielo proibiva umiliandolo, il secondo ha rinunciato al più alto carisma d’ufficio quando ha compreso che questa era la provocazione più efficace affinché tutta la Chiesa si scuotesse dal torpore e riprendesse coscienza della propria speranza e delle proprie ragioni.

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