Per un istante, durante la lunghissima standing ovation tributata dal clero di Roma al proprio Vescovo dimissionario, ho sperato che qualche tonaca impazzita si alzasse sulla sedia e gridasse più forte degli altri: “resta con noi, non te ne andare, da chi andremo…” Invece nulla. Tutti commossi, sacerdoti dalla lacrima facile, ancora intontiti dall’annuncio del secolo non devono essersi resi conto che avevano appena assistito a qualcosa di straordinario e francamente incomprensibile.
Dopo quanto accaduto ieri mattina confesso che diventa difficile credere ad un pontefice senza vigore che lascia perché sente venire meno le forze. Ma dobbiamo fidarci di lui. Anche se un uomo che a 85 anni suonati tiene una lectio magistralis a braccio, su un argomento che fa tremare i polsi a storici calibratissimi e teologi navigati, parlando per 45 minuti e 50 secondi senza pausa e senza sbavature logiche, tutto mostra tranne che segnali di debolezza senile. Eppure dobbiamo fidarci di lui. A quanti sarà passato per la testa, ascoltando la sintesi perfetta di 50 anni di studi e dibattiti sui lavori conciliari, che lo Spirito Santo si dovrà impegnare molto per trovare qualcuno alla sua altezza, capace di raccoglierne la passione e la preparazione pastorale, la capacità di analisi ecclesiale e sociale, la memoria storica e l’amore per la Chiesa, la disponibilità al dialogo e la fermezza delle posizioni?
Anche loro dovranno fidarsi di lui. Perché dopo quello che abbiamo ascoltato stamattina è chiaro che le sue dimissioni sono irrevocabili. E non solo per la tranquillità con cui, per l’ennesima volta, ha ribadito la decisione di ritirarsi, nascosto al mondo ma presente nella preghiera, ma anche perché il contenuto di quella che schermendosi ha chiamato “chiacchierata”, è quanto di più simile ad una eredità programmatica per il futuro della Chiesa si possa immaginare. L’oggetto uno dei temi più amati, il Concilio, ovvero la riforma incompiuta del 900. L’impostazione cattedratica, quasi professorale, infarcita di frammenti autobiografici, piccoli deliziosi ricordi, curiosità sul più grande evento ecclesiale del XX secolo.
Sembrava narrare, con la semplicità del maestro elementare, una storiella, mentre stava tracciando le linee del futuro pontificato, oltre che spiegando concetti e schemi interpretativi che impegnarono, e in molti casi divisero fino alla rissa, i partecipanti all’Assise. Così ha raccontato del card. Joseph Frings, arcivescovo di Colonia e suo mentore, di come trepidante indossava la porpora prima di incontrare Giovanni XXIII, dopo aver tenuto una lezione audace a Genova, il cui testo era stato preparato proprio dall’enfant prodige della teologia tedesca, Joseph Ratzinger. E ha strappato persino una risata, riportando il sollievo del cardinale alle sorprendenti parole di elogio di Papa Roncalli. E poi l’entusiasmo, la gioia della scoperta, il clima di comunione, gli straordinari incontri che dovettero incantare il giovane professorino: De Lubac, Congar, Danielou, l’allampanato Etchegaray, segretario dei Vescovi francesi.
Ma soprattutto la visione del “suo Concilio”. Un’analisi compiuta dei temi che infervorarono i padri, degli schieramenti teologici, delle dinamiche che permisero alla Chiesa, ancora robusta ma troppo ingessata, di mostrare un volto nuovo. Dalla Riforma liturgica all’Ecclesiologia, dalla Rivelazione all’Ecumenismo, al rapporto tra Chiesa e modernità, Benedetto XVI con paziente e chiara esposizione ha fatto rivivere una stagione indimenticabile della storia, sottolineando passaggi, riproponendo verità, sciogliendo nodi. Così ha sbrogliato, con saggezza, la querelle sulla riforma liturgica ammonendo persino chi oggi frettolosamente liquida la domenica come fine della settimana (mentre ne è principio, giorno della creazione e della ricreazione in Cristo risorto).
E si è tolto pure la soddisfazione di ricordare che l’abusata e polemica espressione “noi siamo Chiesa” è sì frutto del Concilio ma in una prospettiva che incorpora il “noi” dei credenti di tutti i tempi nel corpo di Cristo. E poi la collegialità, categoria discussa, e la definizione di Popolo di Dio, che collega nuovo e vecchio testamento nella persona di Cristo, unico discendente del seme di Abramo.
Tradizione e rivelazione, libertà religiosa ed ecumenismo, responsabilità verso il mondo e responsabilità verso l’eternità, tutto è stato riportato all’oggi per mostrare che c’è un Concilio ancora da scoprire. Un Concilio della fede lontano dal concilio virtuale dei media, interessati ad una decentralizzazione della Chiesa, pronti a spiattellare una versione della verità più accessibile e accomodante, dominata da facili schemi politici, più efficiente nella risoluzione di problemi immediati. Un Concilio che ancora indica con forza la direzione da perseguire. Il vecchio Papa ha guardato al passato per correggere la rotta nel futuro, concludendo con parole che sarà difficile rimuovere.
“Nell’anno della Fede speriamo che il vero Concilio si realizzi e la Chiesa, con l’aiuto dello Spirito Santo, si rinnovi. Andiamo avanti nel Signore, nella certezza che vince il Signore”. La battaglia può iniziare.