Chissà cosa avrà pensato guardando quella folla abbracciata dal colonnato berniniano, i lenzuoli colorati di affetto e citazioni, il brusio babelico, i cori e le voci sforzate per raggiungerlo. Avrà capito che c’è qualcuno che non vorrebbe mai lasciarlo andare, che a fatica accetta e comprende il suo bisogno di nascondimento? “Tu es Petrus”, gridava uno striscione, un presente che cozzava con il passato di “Ti abbiamo amato tantissimo”. L’oggi della Chiesa con le sue contraddizioni: il successore dell’Apostolo che ancora, e fino alle 20.00 del 28 febbraio, guida la cattolicità e il Papa dimissionario, con un mandato a tempo, per cui ci si allena ad usare l’imperfetto, passando per il passato prossimo. Strapazziamo subito gli incauti fedeli che hanno già scelto di archiviare la relazione con Ratzinger, rincorrendo la musicalità di certe citazioni.
Non: “Ti abbiamo amato”, ma: “Ti amiamo”. Il tantissimo è un di più. Quasi pleonastico. Si può proprio con il pontefice in questione pensare di ignorare la massima agostiniana “dell’amore senza misura”? Si ama e basta. E Benedetto XVI è un Papa, e un uomo, da amare. Ora più che mai. Sgombrato il campo da temibili equivoci torniamo alla folla. I numeri non contano, si sa, ma i centomila di Piazza San Pietro avevano da dire qualcosa. E ci hanno provato. C’era persino chi finalmente ha avuto il coraggio di urlargli “ripensaci”. Sono quelli che non riescono ad arrendersi alla libertà e alla coscienza. Che inseguono la Storia e non la fanno. Che questo vecchio santo non lo hanno capito ancora. Né il suo gesto rivoluzionario. Eppure basta staccare dal chiacchiericcio interessato dei pensatori universali, dalle insinuanti opinioni di storici e piccoli ecclesiastici, dai clericalismi di facciata per comprendere cosa c’è in gioco. Il per sempre della fede. Della nostra fede.
L’eternità che ci spetta, quella che ci è stata promessa e che nessuno ci potrà togliere. Basterebbe ascoltarlo Benedetto XVI, in questi ultimi giorni di presenza pubblica, per scoprire un compito e una missione che resteranno oltre lui. Così come ha fatto in quei difficili giorni del 2005, dopo il doloroso e prolungato distacco da Giovanni Paolo II, Ratzinger ci prende per mano per accompagnare la Chiesa in prossimità del Mistero. E lo farà anche nella settimana che si apre, quando inizierà a prepararci alla separazione, vivendo in Vaticano l’isolamento necessario agli esercizi dello Spirito. Affila l’unica arma che possiede il cristiano, la preghiera, per segnare la Storia. Da lunedì scorso, non è passato giorno in cui non abbia cercato di far entrare nelle capoccie dure l’essenziale, quel Cristo che ha amato e ama sopra tutto, che non si stanca di annunciare anche quando dice che non ce la fa più. Prendiamo l’Angelus di oggi: ha esordito dicendo “ri-orientiamoci” decisamente verso Dio. Ha continuato esortando a rinnegare l’orgoglio e l’egoismo per vivere nell’amore. Ha ammesso che lo spirito del male ci ostacola e si oppone. Ma ha concluso ricordando la verità che ha scelto come litanita per la fine del suo pontificato: Cristo vince.



Conversione, realismo, certezza. Una dinamica che ricorre in ogni suo discorso da una settimana a questa parte. Insieme all’invito a non strumentalizzare Dio, a non rincorrere il potere, il successo, il desiderio immedito, nuovi idoli rivestiti di una bontà subdola e tentatoria, adorati anche nel cuore della Chiesa. E’ in gioco Dio – ha spiegato prima della preghiera dell’Angelus – vogliamo seguire l’Io o Lui? Benedetto XVI ha superato il bivio. La sua decisione non è un cedimento nel deserto, ma la drammatica scelta del condottiero prima della battaglia. Il suo Io è con il Vincitore. Noi siamo con lui?

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