E’ il totoSanremo che ha oscurato il totoPapa o viceversa? Dai bar alle radio commerciali, i mercati e le ricreazioni scolastiche, le cene tra amici e quelle formali di lavoro, le chiacchiere quotidiane di questa settimana pencolavano tra il vincitore della canzone italiana e il nuovo pontefice sul soglio di Pietro. Con diverse percentuali. Nelle scuole si parlava soprattutto di canzoni, magari per sbeffeggiarle, e il totoschedina surclassa sempre tutte le altre scommesse; ai mercati si preferiva parlare del papa, perché il popolo romano sente questa rinuncia come una privazione, sente il privilegio di una vicinanza che diventa un surplus d’affetto, una responsabilità. Nei salotti radical chic vince il papa, ma in uno scambio di interpretazioni e trame a tinte fosche che al solito significano una cosa soltanto: la Chiesa è andata, questa la stoccata finale, il prossimo papa dovrà concedere molto alla collegialità, i temi etici eccetera.



Talvolta, il totoPapa si confonde col toto candidato, secondo una moda inaugurata dell’intellettuale di riferimento, Roberto Saviano, e chi a dire che la mossa di Benedetto favorirà il centrodestra, chi invece no, la novità parla sinistrese. Del resto, ci si può appellare a fini esperti di cose Vaticane, e molti ambiscono ad esserlo, la categoria è affollatissima. Come negarsi un commento, una rivelazione, un retroscena, che intrecci finanza, politica internazionale, sociologia, psicologia, storia antica e nuova, teologia. Questa vicenda lascia il segno, uno sbaffo con la firma non si nega a nessuno. Scalfari ha detto. Risponde Messori, e ci scusiamo per il confronto. Messori sa bene quel che dice, ma nella logorrea globale tuto si mescola e si confonde, il vero e il falso, il senno e la follia. Anselmi sceglie Ravasi, il Messaggero punta su uno spagnolo (il Papa ha detto ai pellegrini spagnoli di pregare per il suo successore, vedi mai che avrà già in mente il nome di un prelato ispanico).



Penne che si esercitano solitamente sull’economia e la sociologia si buttano avidi sulle indiscrezioni presunte o inventare dei Sacri Palazzi, sempre meno sacri, perché da quelle parti si parla troppo, e speriamo che i ritiri spirituali di Quaresima impongano un po’ di reverente silenzio. Gli spin doctors dei vari capilista, annoiati da una campagna elettorale breve, ma troppo lunga per la sua stanca ripetitività, preferiscono il toto Vaticano, e disegnano scenari in cui fazioni l’un contro l’altro armate si contrappongono, innalzano sugli altari e gettano nella polvere, stringono alleanze e si trafiggono a colpi di dichiarazioni all’apparenza innocenti.



Quando non si sa più che dire, spunta il nome del cardinale filippino, è il più giovane, sarebbe il più strano, fa fine e non impegna. Ora, che i giornali debbano riempirsi, e non possano ignorare l’evento più eclatante del secolo, è un dato. Poiché fino a metà marzo non si saprà nulla di nuovo, e nell’impossibilità concreta di indirizzare i consensi, bisogna inventare, alzare il telefono e raggiungere il malcapitato che il rivale in edicola o televisivo non ha ancora pensato di contattare. 

Non importa se nessuno dice nulla di nuovo o fondamentale, purché se ne parli. Ma che a questo sport si applichino i cristiani, stupisce, e addolora. La gente è sconcertata, ferita, sbalestrata. Non è vero, o almeno, è così per pochi. Per i fedeli che domenica affollavano piazza San Pietro, ad esempio, e che depressi o turbati non lo sembravano affatto: un po’ tristi, certo, perché a quella figurina bianca che parla con esile voce potente ci eravamo affezionati, e le sue parole, anche l’altro ieri da quella finestra, lasciano presagire un’intelligenza addolorata sulle tentazioni della Chiesa, sull’opera di un demonio che vorremmo tutti relegare nell’immaginario della favola, o della superstizione. Ma i cristiani sono sereni, stanno col Papa, si fidano di lui, si fidano di quello che verrà, pregano perfino.

Basta uscire dal colonnato del Bernini, e già le puntate sul sarà nero sarà tedesco di nuovo si scambiano con cappuccio e cornetto e le schedine del gratta e vinci. Tutto scorre e ci passa addosso, sette giorni a parlare di papa e già si è un po’ stanchi, non ci hanno fatto godere manco l’ultima settimana di Carnevale e il Festival, lo spazio gentilmente concesso all’amnesia nazionale, alla distrazione in senso letterale, uno strappo dal peso di spread e Imu che ci deprimono da un anno e più. Eppure, lo scarto vero è la ventata che arriva da quella finestra del Palazzo apostolico, che si impone ad ogni sguardo sul Cupolone, ancora più grande, e impenetrabile custode di una città e un popolo che in essa ha il cuore.

Non sappiamo reggere il colpo. Bisogna assorbirlo in fretta, voltare la testa, passare col telecomando da quella ad altre piazze, che pongono meno domande. Fino a sabato sera ci si poteva chiedere l’un l’altro se sarà giovane, sarà talentuoso. Se si è fatto notare nel suo paese. Se la critica lo apprezza. E’ anche un bell’uomo. Canta benissimo. Sostituiamo l’espressione con parla benissimo, e si potrebbe trattare del Mengoni di turno o del nuovo papa.

Ora che il festival è finito, abbiamo qualche giorno per divagare tra Monti, Bersani, Berlusconi, l’outsider Grillo, chissà. Dopo, dal 28 febbraio in poi, sarà difficile in coscienza, trovare altri alibi per non stare davanti a quel fatto. E’ per tutti, da quella finestra trarre parole che leggono la realtà e ne offrono il significato. E’ per tutti la possibilità che la distrazione diventi attrazione.