Durante il pontificato di Benedetto XVI numerosi sono stati i momenti e i motivi di polemica, spesso ingiustificati, in relazione al dialogo ebraico – cristiano. Sarà quindi opportuno, giunto a conclusione, con il ritiro del pontefice, il suo pontificato, ripercorrere i momenti più importanti di questo rapporto così essenziale per il mondo contemporaneo, sul piano dei documenti.
Nel 2001 viene pubblicato dalla Libreria editrice vaticana, a conclusione di anni di lungo lavoro della “Pontificia Commissio Biblica”, un volume di poco più di 200 pagine, ma denso di contenuto intitolato “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana”. Non è qui possibile presentare questo testo in modo analitico: mi limiterò a qualche citazione.
L’incipit della introduzione è però già esplicito di quelle che saranno le conclusioni: “I tempi moderni hanno portato i cristiani a prendere meglio coscienza dei legami fraterni che li uniscono strettamente al popolo ebraico”. Due pagine dopo conclude:”La Commissione Biblica spera in questo modo di far avanzare il dialogo tra cristiani ed ebrei nella chiarezza e nella stima e l’affetto reciproci”.
Ma chi era il coordinatore di questa Commissione se non l’allora Prefetto della Congregazione della Fede cardinale Joseph Ratzinger? E allora leggiamo e soprattutto ascoltiamo quello che scrive nella prefazione, datata Festa dell’Ascensione 2001.
Innanzitutto rivendica nella tradizione dei Padri della Chiesa la centralità “della questione dell’unità interiore dell’unica Bibbia della Chiesa, composta di Antico e Nuovo Testamento”. Analizza successivamente con riferimento ad Agostino, le posizioni di chi ritiene, disprezzando l’Antico Testamento, che il Messia non aveva bisogno della testimonianza dei profeti ebraici.
Senza entrare nel merito della discussione dei testi di Marcione, Origine e Agostino che il cardinale peraltro, sia pure in maniera sintetica affronta, il Prefetto della fede sottolinea un primo risultato e cioè che “(…) senza l’Antico testamento, il Nuovo Testamento sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi”.
Riconoscendo poi che l’ermeneutica cristiana dell’Antico Testamento è senza dubbio “profondamente diversa da quella del giudaismo (…) corrisponde tuttavia ad una potenzialità di senso effettivamente presente nei testi”. Questo a suo parere è “un risultato di grande importanza per la continuazione del dialogo”. Dopo aver affrontato i temi dell’antigiudaismo e delle sue terribili e drammatiche conseguenze come la Shoah giunge ad una prima conclusione: “(…) un congedo dei cristiani dall’Antico Testamento (…) avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe neppure essere utile ad un rapporto positivo fra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune”. Come corollario aggiunge che la lettura ebraica della Bibbia è una “lettura possibile” e che “i cristiani possono imparare molto dall’esegesi giudaica praticata per 2000 anni”, mentre i cristiani auspicano che gli ebrei “possano trarre utilità dai progressi dell’esegesi cristiana”, rovesciando quindi la posizione consolidata di respingimento teologico nei confronti dei Maestri del Talmud e degli esegeti come Rashi.
Conclude il Cardinal Ratzinger sulla centralità di questa fatica “per la così importante ricerca di una rinnovata comprensione fra cristiani ed ebrei”.
In conclusione mi sembra si possa affermare che i tre libri su Gesù di Nazareth dell’ormai papa Benedetto XVI non sono altro che lo sviluppo metodologico di queste premesse teologico -ermeneutiche, per cui la scelta del Gesù della Storia contro quella del Gesù della Fede, evita di allontanarsi dalla Bibbia ebraica e di vanificare il dialogo ebraico – cristiano.
Credo che questo sia il lascito più prezioso del pontificato di Benedetto XVI.
(Guido Guastalla)