Da Pier Luigi Bersani arriva la proposta di abolire il ticket sulle visite specialistiche. Un’idea lanciata dati alla mano, in quanto, secondo il candidato premier del Pd, “i cittadini spendono di tasca propria 834 milioni l’anno per pagare i ticket sulle visite specialistiche”. Bersani ha subito individuato dove taglierebbe per trovare le risorse: “La sanità pubblica spende ogni anno 790 milioni di euro in consulenze”. Ilsussidiario.net ha intervistato Elio Borgonovi, professore di Economia delle aziende sanitarie all’Università Bocconi, per chiedergli di commentare questa proposta.
Professor Borgonovi, la convince il modo in cui Bersani intende coprire l’abolizione dei ticket?
La proposta potrebbe stare in piedi, ma ritengo che la priorità non debba essere l’abolizione totale delle consulenze, bensì una loro abolizione parziale compensata da altri interventi. Occorre agire nelle modalità previste dalla normativa sia dell’agosto 2011 del governo Berlusconi, sia sui provvedimenti sulla spending review. In questo modo si potrebbe consentire un recupero quantomeno di una parte degli 834 milioni di euro raccolti con i ticket. Il risparmio dovrebbe essere garantito da una riorganizzazione delle unità delle aziende sanitarie e a una riduzione di spesa negli acquisti e consulenze. Dubito che si possano azzerare le consulenze da 790 milioni, anche se un taglio parziale è necessario.
Per quale motivo non è possibile azzerare le consulenze?
In quanto probabilmente nelle consulenze sono compresi anche gli onorari di specialisti che non possono essere pagati in altro modo per il blocco delle assunzioni. Passano quindi come consulenze delle prestazioni che di fatto sono necessarie per l’espletamento delle attività di un ospedale. Con interventi di valutazione dell’appropriatezza di queste visite specialistiche si potrebbero anche ridurre le uscite complessive, abolendo le prestazioni se non inutili quantomeno superflue. Si stima che almeno il 10-15% delle visite specialistiche non aggiungano molto alla qualità dell’assistenza e della salute, in quanto si prescrivono più che altro per abitudine.
L’Italia è uno dei paesi al mondo con i maggiori servizi sanitari gratuiti. C’è davvero la necessità di estenderli ulteriormente?
I servizi non sono gratuiti, in quanto non c’è un prezzo o una controprestazione diretta, ma sono coperti comunque con la fiscalità. Il fatto è che ci sono dei motivi tecnici/organizzativi che portano a dire che se io erogo un’assistenza sanitaria i cui livelli essenziali hanno caratteristiche uniformi per tutta la popolazione, si produce un effetto vantaggioso in termini di Pil.
Non sarebbe meglio fare pagare solo i più ricchi?
Da un punto di vista formale, fare pagare i ricchi sembrerebbe una misura equa. In realtà, in questo modo si creerebbe, come è ormai dimostrato nella storia dei sistemi di tutela della salute, in particolare negli Stati Uniti, un doppio circuito che aumenta il totale della spesa sanitaria pubblica e privata sul Pil e crea delle situazioni in cui veramente l’assistenza pubblica diventa di serie B. Andare verso la gratuita per tutti è una proposta valida, il punto è che gratuità non significa dare tutto a tutti senza fare pagare un euro.
E che cosa significa allora?
Per certi tipi di prestazioni che hanno un’incidenza limitata sulle famiglie si può andare verso il copayment, sotto forma di ticket o con altri meccanismi. Ci possono essere misure di ticket che non sono finalizzate a fare cassa, ma che siano modulate in modo tale da disincentivare l’abuso di prestazioni non necessarie. Ad affermarlo sono diversi studi, ma anche diverse esperienze all’estero. La sinistra in passato si è basata spesso sull’idea di rendere gratuito tutto a tutti, sempre e comunque, senza porsi il problema della sostenibilità. Quest’ultimo va posto invece in un altro modo.
Lei che cosa propone?
L’Agenas, l’agenzia sanitaria per i servizi nazionali, ha pubblicato dei dati che evidenziano che ci sono delle prestazioni non appropriate. Si cerca quindi di intervenire o con misure di “controllo dell’offerta”, cioè indicatori rivolti ai medici, o di “controllo della domanda”, ad esempio dei ticket a un prezzo simbolico. Il problema della gratuità lo si risolve quindi razionalizzando l’offerta, per esempio andando a evitare che ci siano strutture inefficienti o che ci sia una concorrenza che aumenti i centri a dismisura. In alcune regioni per esempio c’è un eccesso di cardiochirurgie, il cui unico scopo spesso è quello di alimentare una domanda superflua. Aumentando il numero di reparti di cardiochirurgia si aumentano gli interventi, e questi ultimi a volte sono inappropriati.
(Pietro Vernizzi)