Quando un adolescente o un giovane si suicidano, come purtroppo accade sempre più spesso, è sempre una domanda bruciante al mondo degli adulti. Quando dal 1997 ho cominciato a dedicarmi ai ragazzi in difficoltà era chiara, dopo i primi anni, la consapevolezza che i ragazzi cosiddetti “presi in carico dai servizi sociali” sono figli della malvagità cui si riduce un amore che non sia gratuito. È come se essi mettessero in luce la coscienza sporca del mondo in cui viviamo, che sfascia famiglie e nuove generazioni, lasciando in giro cadaveri viventi che sono i ragazzi distrutti dall’assenza di un luogo educativo.
Ognuno di questi ragazzi, perciò, è un santo innocente, perché nella sua malvagità giovanile o nella sua inconsistenza umana c’è dentro qualcosa che non dipende da lui: “Scusate, non sono abbastanza forte. Mi dispiace” scriveva Carolina prima di suicidarsi (cfr. ilsussidiario.net del 9 gennaio). Tanti genitori, di fronte ad un figlio che si toglie la vita, si chiedono “dove abbiamo sbagliato, cosa potevamo fare di più perché non accadesse?”. È una domanda lecita, ma così formulata ferma a metà la ragione per cui la domanda stessa ci viene spontanea; tant’è vero che essa, se si ferma qui, porta spesso solo a diventare più incerti, più confusi (se non a volte più cinici e nichilisti) nei confronti della vita.
Se di fronte a tanti ragazzi che in questi 12 anni sono stati accolti a Ca’ Edimar a Padova, per i quali non ho visto nessun risultato evidente del lavoro educativo svolto, mi fossi fermato a dire “dove ho sbagliato” non ci sarebbe più quello che c’è e, soprattutto, non ci sarei più io. Allora uno capisce che la domanda arriva ad un punto interessante di verità quando diventa “che cambiamento chiede a me questa sconfitta?”, e arriva ad un punto vertiginoso di verità quando diventa “che cambiamento chiede di me questa sconfitta?”. Non si dà educazione e accoglienza se chi educa e accoglie non vive la certezza che egli, l’adulto, è sempre educabile, che egli è in un lavoro continuo di cambiamento di sé. Non un cambiamento per diventare buono, più capace, più “professionale”, ma per addentrarsi di più nella coscienza del mistero della vita, dell’altro che devo educare e voglio amare come se fosse mio figlio, di me stesso.
E così si ritrova dentro anche una bontà, una capacità, una professionalità prima sconosciute, al servizio di qualcosa di più grande. Per questo il suicidio di Habtamu non è un’adozione fallita. Non sarà fallita se chiunque adotta, dopo questa morte innocente, è preso di più dalla consapevolezza che tutto il bene che puoi avere per un ragazzo che accogli – fino a farlo diventare tuo figlio, con il tuo cognome – non può riempire la sua vita, non può colmare il suo dolore o la sua nostalgia per qualcosa di perduto.
Questa consapevolezza non ti fa stare sulla soglia dell’abbraccio, non sospende il tenace lavoro educativo perché “tanto l’esito non dipende da me”; anzi! ti fa entrare più dentro, con un vigore sconosciuto ma, soprattutto, con tutta la libertà. Il mistero della libertà dell’altro che può arrivare, disgraziatamente, fino a farsi del male, non ti coglie impreparato, ti stupisce sempre di più perché è mistero e ti fa andare avanti più spedito nell’abbraccio e nell’educazione di altri “Habtamu”.
Grazie per il dono che hai fatto della tua vita, Habtamu, perché io potessi capire un po’ di più del mistero di cui siamo fatti. Grazie alla famiglia Scacchi che ti ha accolto e accompagnato come poteva nel dolore che ti portavi dentro.