Il Vangelo della domenica, l’ultima del pontificato di Benedetto XVI, è una delle più belle pagine mai scritte. È il racconto dello splendore, la Trasfigurazione su quel monte Tabor perennemente schiaffeggiato dal vento, dove il silenzio alberga anche quando frotte di pellegrini lo prendono d’assalto e dove, sempre, si ricostruisce la vita. Ci si “immerge” nella vita, passato l’istante di rivelazione e contemplazione della divinità di Cristo. È l’anticipo della Resurrezione, l’intuizione fulminante, mi spiegava oggi un bravo e dotto prete, che l’alfa e l’omega della Storia è il Figlio di Dio, punto di partenza per un nuovo cammino dell’umanità. E la provvidenza ha voluto che fosse l’ultimo frammento di Scrittura meditato e spezzettato dal Papa per noi. 



Il distacco è iniziato. E fa male. Non ingannino il palpito della piazza, gli striscioni colorati, il raggio di sole che ha onorato una Roma cupa e uggiosa, recalcitrante a trattare quella che, nonostante tutto, era una festa. Quando la finestra del palazzo apostolico si è spalancata, quell’istante di vuoto, l’indeterminatezza creata dal controluce, ha permesso ancora una volta all’inquietudine di stritolare il cuore, e di far presagire l’istante di vuoto, il momento in cui il Padre sarà lontano. Lui deve aver intuito la paura perché mai ho visto un uomo tanto sereno nel momento in cui si accinge a dire addio. Scompare o meglio si nasconde. Ma intanto si mostra nella pienezza della sua persona. Felice. E guardando quella piazza stracolma dall’alto, inizia a parlare del “bel Vangelo”, di Pietro, Giacomo e Giovanni, intontiti e spiazzati dall’esperienza mistica. Bramosi e furbi nel chiedere le tre tende, umanissimi nel desiderare tutta la bellezza che li aveva inaspettatamente investiti. 



Tutto era facile e santo su quel cucuzzolo mediorientale, perché fermare l’esperienza mistica, perché tornare alle fatiche, ai dolori di una esistenza precaria e carica di incertezze? Pietro, sempre troppo innamorato per capire, ci prova e chiede di azzerare il tempo, di scaricare le ansie, di ingozzarsi subito di Cristo “cibo dell’anima”. Benedetto XVI cita l’amatissimo Agostino per scandagliare la dinamica dell’Apostolo che va sempre al sodo, impetuoso nel rispondere e nel tradire, ma primo anche nel chiedere perdono. E spiega che bisogna dare il giusto tempo alla preghiera, respiro alla vita, non per isolararsi dal mondo e dalle sue contraddizioni, sul Tabor della religiosità intimista, ma per ritornare all’azione, per lasciarsi ricondurre al tracciato di una vita piena. 



Pietro non aveva capito che la contemplazione è nella Storia. E non siamo forse noi oggi Pietro? Non certo quello delle chiavi e della pietra, lo zuccone fidato di Gesù, ma quello che avrebbe voluto piantare tre tende tra i sanpietrini nel colonnato del Bernini, gustarsi la sapienza e lo splendore di un uomo conquistato da Cristo, trasfigurato dal suo amore, sicuro e puro nella libertà. L’amico pescatore, stufo delle reti e dei pesci maleodoranti, che avrebbe gridato, “non andiamo, è così bello, così facile con te”. Senza capire che pregare è agire, buttarsi nella mischia, scendere a valle. 

Eppure è stato Benedetto XVI a rispondere al grido muto di una piazza che porta il nome dell’apostolo e che non avrebbe mai voluto lasciarlo. “Il Signore mi chiama”. L’inesorabilità di un compito mi aspetta. “Devo salire sul monte”. È mio il destino di preghiera e meditazione. Poi ha alzato il dito, un atto di inusuale gravità per la sua gestualità misurata. Quasi ardito nella tensione ammonitoria. “Ma questo non significa abbandonare la Chiesa”. Confesso che ho pianto, ascoltandolo. Quando ha aggiunto con il tono che accompagna sempre l’ennesima spiegazione al bambino riottoso, “Se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho fatto fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze”.  

Dio chiama. Null’altro conta. Poi alla fine la carezza a quella folla compatta, popolare e sincera nell’abbraccio. “Nella preghiera siamo sempre vicini”. Il distacco fa male. È vero. Bisogna avere la fede di Joseph Ratzinger per capirne tutto il senso.