Ce l’hanno sbattuta in faccia così tante volte gli schermi di questi giorni che quasi quasi verrebbe voglia di abbatterla con un ariete. La porta della Sistina chiusa è il segno, simbolico e reale, del fatto che il mondo è “non addetto”. Insomma che la faccenda tra le mura affrescate e le volte michelangiolesche è roba da porpore e Spirito Santo. Eppure l’extra omnes intriga, come pure il segreto (puntualmente violato). Di certo martedì pomeriggio, intorno alle 18.00, il maestro delle cerimonie farà il suo dovere, inquadrato con sfacciataggine, accompagnerà i battenti di legno, con una gestualità lenta e teatrale, per nascondere, con progressione enfatica, i meravigliosi colori del giudizio universale, le sagome rosse e lo spazio sacro della Sistina.



Noi rimarremo fuori, in attesa. Amen. Una ritualità secolare che dobbiamo accettare, una cerimonia che il Papa emerito ha voluto ancora più solenne con le modifiche contenute nel suo ultimo Motu Proprio, Normas Nonnullas. Perché quello che accade lì dentro non è da poco, e non è un caso che la separazione resasi indispensabile dalla storia, finisca per essere l’unica cortina contro la pressione della modernità. Certo inibiti tablet, ipod e telefonini, in fondo i 115 elettori non si troveranno poi in una situazione tanto diversa dai loro predecessori. Non proprio in clausura forzata, come i cardinali che a Perugia nel 1216 furono costretti dalla folla esasperata ad eleggere Onorio III, né tantomeno blindati nei ruderi della carceri del Septizonio, alle pendici del Palatino, sorte toccata alle 10 porpore riottose che, nel 1241, non trovavano l’accordo sul nome del successore di Gregorio IX.



Ma se oggi non c’è più un Federico II o un senato brutale e spiccio, come quello guidato da Matteo Rosso Orsini, è vero che i cardinali arrivati da tutto il mondo subiscono il fiato sul collo delle oltre 4mila firme arrivate da tutto il mondo, con le 1004 testate accreditate e le centinaia di telecamere, teleobiettivi e parabole fameliche di segreti e curiosità, ma anche il molto più comprensibile desiderio del popolo di Dio di riconoscere nell’eletto il nuovo padre della Chiesa.

Faranno in fretta assicurano. Speriamo. Intanto bisogna annotare che rispetto al conclave del 2005, quando solo due elettori avevano una qualche esperienza (di cui uno finì per diventare Papa), questa volta c’è chi potrà ostentare una qualche familiarità con i meccanismi del voto, le schede, le urne in argento, gli scrutinii serrati e le sfibranti liturgie contabili. Della pattuglia di cardinali che rappresentano la Chiesa nei 5 continenti, ben 48 sono stati creati da Giovanni Paolo II e quindi protagonisti dell’elezione di Benedetto XVI. Gli altri, maggioranza relativa, devono la porpora a Ratzinger.



Qualcuno come ben noto è finito in Sistina per il rotto della cuffia, nell’ultimo concistoro, quello fortemente voluto dal Pontefice, ormai emerito, nel novembre 2012: l’americano Harvey, il latino americano Salazar Gomez, l’africano Onaiyekan e i tre asiatici di peso, il libanese Rai, l’indiano Thottunkal e il filippino Tagle. Allora le cronache riferirono di una mossa ratzingeriana per bilanciare un collegio cardinalizio troppo europeo e decisamente imperniato sulla curia.

Senza dubbio Benedetto XVI volle sanare una situazione che vedeva grandi nazioni cattoliche senza cardinali elettori, come nel caso della Colombia e delle Filippine. Alla luce dell’11 febbraio quella che venne considerata una manovra corretiva di scelte non condivise da tutti gli episcopati diventa un atto previdente e calcolato per consentire un Conclave il più possibile rappresentativo dell’universalità e della vitalità della Chiesa. Dei 115 elettori ben 60 sono europei, di cui 28 italiani, 19 i porporati latino americani, mentre 14 quelli nord americani. Ben 11 gli africani e 10 gli asiatici con il card. George Pell, arcivescovo di Sydney, a rappresentare, da solo, l’Oceania.E’ evidente che nella Cappella Sistina la nazione più rappresentata è l’Italia, ma la storia conta pur qualcosa e non si possono sbattere via secoli di fede come una tovaglia piena di briciole. Seguono gli Stati Uniti con il pacchetto compatto di 11 voti, poi la Germania, 6 elettori, e a pari merito Spagna, India e Brasile.

Insomma, se dovessimo guardare ai tavoli bordati di rosso assemblati lungo le pareti sacre come agli scranni delle nazioni unite i rapporti di forza sarebbero presto chiari. Ma non funziona così. Con buona pace dei tifosi sfegatati di questo o di quel cardinale, del tale o talaltro continente, di una lingua piuttosto che un’altra, il Papa si sceglie non guardando a dove è nato, ma a cosa ha nel cuore e nella testa. E soprattutto a quanta fede possiede. E allora Veni Creator Spiritus!

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