“Oggi dobbiamo essere più radicali di ieri, eravamo più vecchi 40 anni fa e siamo più giovani ora che abbiamo i capelli bianchi”. A imbiancare i capelli di Maurice Bignami è stata una vita drammatica, segnata da una militanza nel gruppo terroristico di Prima linea, da un lungo processo e dalla detenzione in cella d’isolamento. Oggi che ha 62 anni, Bignami rivela che “a partire dalla radicalità delle domande che ho vissuto nel periodo della lotta armata, l’esperienza del carcere mi ha messo di fronte a una battaglia che è durata 30 anni, che non si è ancora conclusa e che mi ha portato a dire che solo Cristo è la rivoluzione capace di rispondere”. Ilsussidiario.net l’ha intervistato all’indomani della morte di Giorgio Semeria, appartenente al nucleo storico delle Brigate rosse. Solo due mesi fa si era spento Prospero Gallinari, un’altra figura di spicco delle Brigate rosse.



Bignami, che cosa si può dire di fronte alla morte di un uomo come Semeria?

Il primo giudizio che mi viene in mente è la tragica coerenza morale ed esistenziale di tutta quella generazione politica che ha bruciato la sua vita nell’esperienza di lotta armata e di questo tentativo rivoluzionario di trasformazione radicale della società in Italia. Ciò non cambia di una virgola l’inutilità e l’incapacità effettiva di trasformazione propria di quell’ipotesi politica. Una coerenza esistenziale e morale non basta a rendere giusta la causa per la quale si combatte.



In che senso parla di coerenza?

Quella composta da quanti sono finiti nella tragedia della lotta armata in Italia, siano essi pentiti, dissociati o irriducibili di Br, Prima linea e qualsiasi altra formazione, è la categoria che meno ha avuto problemi di recidiva. Una volta chiusa quella stagione, nessuno ha tentato di evadere o ha avuto altri problemi con la giustizia, e molte di queste persone hanno lavorato nel sociale. Lo scarto tra quel ceto politico e quello ufficiale, che ha vinto e avrebbe dovuto insegnarci a vivere nella democrazia, è veramente spaventoso. Questo è tragico, perché la tenuta morale degli ex brigatisti come Semeria e Gallinari sottolinea ulteriormente la caduta della sfera politica italiana. Anche se ciò non aggiunge un solo grammo di positività all’esperienza politica della lotta armata.



Che cosa resta oggi di quelle vicende di 40 anni fa?

Noi 40 anni fa ci siamo spesi in modo sbagliato per cambiare le cose, abbiamo fallito e non potevamo che fallire. Il nostro fallimento anzi ha aiutato il nemico che combattevamo. Ci troviamo 40 anni dopo con un sistema di gran lunga più potente e più invasivo, con un processo di alienazione delle persone ancora più profondo e con una domanda di rivoluzione ancora più radicale. Questa domanda di rivoluzione trova una risposta soltanto in Cristo, cioè soltanto in un evento che permane ancora oggi mettendo in crisi, costantemente e in ogni punto, l’intero sistema.

Una risposta che resiste anche di fronte alla morte, di Semeria come di chiunque altro?

La morte di Semeria mi richiama a questa urgenza con una forza ancora maggiore. Oggi dobbiamo essere più radicali di ieri, eravamo più vecchi 40 anni fa e siamo più giovani ora che abbiamo i capelli bianchi. Oggi chi ha fatto questo incontro sa che ha di fronte una scelta radicale, perché non si può venire a patti con il sistema che sta distruggendo quanto resta della nostra umanità.

 

In che senso?

Il processo di alienazione e di schiavitù della specie umana è talmente accelerato, che a tutti noi è richiesta una resistenza adeguata alla sfida, e questo lo possiamo fare solo in Cristo. Occorre quindi essere più rivoluzionari di quanto lo fossimo negli anni Settanta. Ieri abbiamo scherzato, siamo stati bambini, oggi dobbiamo essere rivoluzionari adulti.

 

Quanto c’era in comune tra lei e altre figure degli anni di piombo come Semeria e Gallinari?

Non abbiamo condiviso molto, ma quanto ho detto finora è l’unico giudizio che si deve dare sulla loro morte. Penso che su questa necessaria radicalità avrei trovato un accordo sia con Semeria sia con Gallinari. Poi uno può avere fatto l’irriducibile fino all’ultimo, mentre io ho portato avanti il movimento della dissociazione politica, altri sono dovuti passare attraverso la croce del pentimento, ma la sostanza resta la stessa.

 

Nella sua vita che cosa le ha permesso di capire che la radicalità che cercava nella lotta armata trovava risposta in Cristo?

Intanto ho dovuto finire in carcere con sette ergastoli ed essere rinchiuso in una cella di isolamento, in modo tale che il volano si fermasse e io fossi costretto a sostare di fronte al qui e ora. Quando nel 1982 mi sono ritrovato nel carcere di Firenze, senza un passato e senza un futuro, non avevo più scappatoie. Questa condizione mi ha reso sensibile, pronto e con uno sguardo aperto ogni giorno alla bellezza della vita. In quella condizione riscopri i colori di un raggio di sole o la bontà di un bicchier d’acqua. E’ la ragione per cui dico sempre che non auguro a nessuno la galera ma la consiglio a tanti.

 

A quel punto che cosa è successo?

Una serie di incontri che ho avuto in carcere, in particolare con sacerdoti e suore, mi hanno portato sulla soglia del Mistero e lì l’incontro è stato travolgente. Non è stato un incontro al buio risoltosi in mezz’ora, ma una battaglia durata così a lungo che mi sono cresimato soltanto pochi mesi fa.

 

Stupisce che uno possa arrivare a Cristo attraverso la lotta armata …

Non dovrebbe stupirsene. In carcere ogni uomo che incontri è una persona nuova, la stai ad ascoltare e hai un sapere più basato sulle relazioni umane e meno astratto. Quando un panettiere, che ha sempre fatto una vita normale, mi parla della sua fede in Cristo io resto stupito. Quando invece uno è passato attraverso le mie vicissitudini ci sarebbe da stupirsi se non arrivasse a convertirsi.

 

(Pietro Vernizzi)