Il 17 aprile del 1991 Pietro Maso, assieme a dei complici, ammazzò i genitori colpendoli ripetutamente con un tubo di ferro, delle spranghe, un bloccasterzo e altri oggetti. Li colpì più e più volte, infierendo su di loro finché non esalarono l’ultimo respiro. Voleva intascare la sua quota di eredità. Condannato a trent’anni, uscirà il 15 aprile 2013 dal carcere di Opera per effetto di una riduzione della pena derivante da indulto e scarcerazione anticipata. L’opinione pubblica non dimenticherà mai la foto di quel ragazzo elegante, con i capelli laccati e il foulard al collo che, del tutto impassibile e, a tratti, strafottente, assisteva al suo processo. Ne abbiamo parlato con lo psichiatra Alessandro Meluzzi.



Perché si tratta i uno dei delitti italiani ricordati con più orrore?

Per il contenuto simbolico che esprime: l’idea che un ragazzo possa appostarsi in casa per uccidere i propri genitori scuote alcune convinzioni radicali circa il bene, il male, e il rapporto tra genitori e figli. Il movente, poi, era particolarmente turpe perché legato non tanto ad un’esplosione di furore o a uno scompenso momentaneo, quanto a un calcolo rigido, freddo e preordinato volto a impadronirsi di un’eredità, premeditando l’aiuto di complici. Oltretutto, prima che i genitori morissero dovette colpirli ripetutamente. Ci fu un’iterazione della volontà che descrive una ferocia radicata e inarrestabile, ma preordinata e mantenuta. Oltre l’evidente “rottura” profanatoria legata all’uccisione dei genitori, colpiscono, quindi, le modalità del delitto e le motivazioni che l’hanno originato.



Pare che non ci sia stato alcun ravvedimento da parte sua

La mia sensazione è che ci troviamo di fronte ad una personalità radicalmente deforme. Non si tratta di un delitto passionale o di un evento incontrollabile, ma di una personalità pervertita e incapace di percepire le sensazioni e il dolore dell’altro. Per questo, incapace di ravvedimento. Questo, tuttavia, non lo rende non punibile. E, infatti, è stato punito.

Una persona del genere può essere ritenuta colpevole delle sue azioni?

Sì, perché forme come queste di sociopatia e psicopatologia gravi non escludono la capacità di intendere e di volere, ma contemplano una capacità di fare il male pervertita fin dalle origini. Parlerei, dunque, di un male morale radicato fino alle estreme conseguenze e non di un disturbo mentale.



La volontà di compiere il male, quindi, non è messa in dubbio?

Certo. Non ci sono ragioni per cui si possa parlare di capacità di intendere e di volere annullata o diminuita. In questi casi, si conosce il male, si sa che cos’è, e lo si persegue intenzionalmente.

E’ stato detto che Masi è il figlio di quella Verona bene dedita esclusivamente al culto del denaro

Pensare di rintracciare in una questione di tale complessità delle determinanti sociali di natura economicistica equivale ad una sorta di lombrosismo sociologico. Come Lombroso pensava che uno fosse un delinquente se aveva la testa bassa o gli occhi ravvicinati, così è egualmente sciocco pensare che si possa essere pervertiti nell’anima se si proviene da una cultura fondata su valori economcisti.

Eppure, il contesto in cui uno nasce, vive e viene educato può condizionarne l’agire e il modo di pensare

San Tommaso diceva: Astra inclinant, non necessitant. Gli Astri forniscono un indicazione, ma non impongono un obbligo. E’ chiaro che i condizionamenti sociali ci sono. Tuttavia, se neghiamo all’uomo il libero arbitrio, abbiamo negato l’uomo.

Una persona del genere, potrebbe facilmente tornare a delinquere?

Non necessariamente. Quel tipo di situazione aveva un contesto generativo del reato abbastanza determinato. Le persone  che uccidono il marito, la moglie o i genitori non sono per forza degli assassini in assoluto, ma hanno un obiettivo mirato. Non è scontato che commetterà nuovi omicidi. Oltretutto, può aver inteso che dopo la prigione è meglio per lui non fare altro male. 

 

(Paolo Nessi)