Irritazione. La sento montare dentro e penso subito che il diavolo ci mette le zampe e le corna per rovinarmi il momento di assoluta felicità vissuto con tutta la Chiesa. Irritazione perché a soli tre giorni dall’elezione di Francesco è già iniziato il tiro a freccette, il massacro mediatico, la definizione per opposizione, lo scaricamento del precedente per l’esaltazione del successivo.



Il fastidio fisico per l’ipocrisia di certe firme, le capriole dei commentatori e l’enfasi che subiscono i dettagli ha già prodotto un’amarezza pericolosa, la strisciante persuasione che non cambieremo mai, neanche dopo una delle Grazie più belle che potevano capitare. E non parlo solo dei fantasiosi resoconti di ciò che è avvenuto sotto le volte della Sistina, del tentativo di strizzare tutto nell’arido schema delle fazioni, delle altalene di supposizioni e alleanze proposte da cronisti che neanche lo smacco subito dal Paraclito ha fatto desistere, ma della serpeggiante tentazione, che attraversa tutta la chiesa, di guardare al nuovo perdendo la memoria.



Lo avrete capito, non mi va giù che anche in ambito ecclesiale si contrappongano due uomini di fede come Ratzinger e Bergoglio, o peggio ancora che si valuti l’elezione di Francesco come l’esame di riparazione dello Spirito a 8 anni di distanza dal presunto disastro Benedetto. Non ce l’ho con i soliti e prevedibili custodi del riformismo ad oltranza, gli ideologi delle primavere e delle speranze ecclesiali, quelli, da Leonardo Boff ad Hans Kung, passando per “Noi siamo chiesa” e Mancuso, che hanno salutato l’elezione dell’arcivescovo argentino come un cambio epocale della Cristianità quasi paragonabile all’annuncio del Concilio, ma con gli insospettabili. I folgorati da Ratzinger, oggi dimentichi e persino critici del suo pontificato-calvario, della sua scelta dolorosa e necessaria, del bene immenso voluto alla Chiesa, del faticoso lavoro di aratura che solo un “operaio della vigna del Signore” poteva fare. Perché se una cosa è chiarissima, è che non c’è nessuna discontinuità tra i due pontefici, l’emerito e quello in carica, che uno non avrebbe avuto senso senza l’altro, e che lo Spirito Santo con i cardinali non poteva operare selezione migliore. Solo un idiota non si accorge della progressione di santità nei pontificati che dal 900 hanno traghettato la Chiesa nel terzo millennio. 



Un crescendo soprattutto negli ultimi 35 anni: Wojtyla, Ratzinger, Bergoglio. Con una sovrapposizione tra gli ultimi due forse provvidenziale per questa Chiesa così fragile nelle sue paure, così ferità nella sua umanità, così sporcata dai peccati di alcuni e dall’indifferenza di molti. Un Pontefice solo certo, ma un altro che ha aspettato a salire al cielo e ha accettato la sosta sul monte per aggiungere intensità umana alla sua preghiera. E’ salito sulla Croce, è stato ammesso. Ma ci rimane inchiodato. E forse meriterebbe più laico rispetto se non amore incondizionato. 

Impariamo da Francesco, a tributargli il riconoscimento che merita: il pensiero pronto dalla loggia delle Benedizioni, la telefonata dopo l’elezione, la preghiera incessantemente richiesta, l’affidamento a Maria della sua vita monacale, le citazioni in tutti i discorsi fin qui pronunciati. Non possediamo ancora il distacco per guardare alla Storia. La pancia in subbuglio, il cuore esultante, le emozioni latine e le suggestioni scatenate dal nome inedito possono aver fatto girare la testa, ma non si può dimenticare l’ovvio. E cioè che entrambi i pontefici, l’emerito e non, possiedono la stessa “santa ossessione” per Cristo (gli danno entrambi del “Tu”), usano lo stesso linguaggio, hanno la stessa coriacea fede, lo stesso realismo, la stessa devozione mariana, la stessa matrice popolare. Con stili diversi. Teutonico con sprazzi bavaresi, Ratzinger, piemontese addolcito dalle note latine, Bergoglio. 

E se uno amava mozzetta e camauro e l’altro predilige il bianco totale, chissenefrega. Persino un “catto-dandy” come Camillo Langone sul Foglio riconosce che è qualcosa a cui si può rinunciare per “salvare Cristo”. Se il numero 265 dei successori di Pietro ha riportato un certo splendore nelle liturgie arruffate di certe parrocchie e il numero 266 sembra invece non voler lasciare la sua benedetta croce di ferro, cosa importa. Credo che la cosa su cui non ci si può ingannare sia l’identica urgenza di annunciare il Vangelo. Ma per sottolineare i tratti di unità ci sarà tempo. Intanto cogliamo il fascino di parole e frasi che ritornano con insistenza senza soluzione di continuità. Come il “non cedere al pessimismo” o “non fare della chiesa una Ong pietosa”, oppure “confessiamo l’unica Gloria: Cristo Crocifisso”. O ancora “camminiamo”. Ma il Papa emerito non si era definito un pellegrino? Il demonio ci prova, sta a noi smontarlo. 

Un Ps finale. Piccolo regalo di un cardinale elettore prima di raggiungere la sua diocesi: il racconto bellissimo della Messa celebrata alle 7 del mattino da Papa Francesco nella cappella della Domus Sanctae Martae. E’ l’omelia in cui Papa Bergolio ha parlato del tempo della desolazione e della persecuzione citando il suo Ignatio di Loyola per la prima volta, da pontefice, quando nelle regole del discernimento consiglia “nel tempo della desolazione non si facciano mai mutamenti, ma si resti saldi e costanti nei propositi e nelle decisioni che si avevano nel tempo della consolazione”.

Altrimenti, ha aggiunto il santo parroco Francesco, se ci si allontana, quando il Signore torna a rendersi visibile rischia di non trovarci.

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