C’è una parola che, come poche, da oltre cinquant’anni ha la capacità di sollevare sospetti e divisioni, è la parola “povero” o – nel suo sinonimo più politicamente corretto – “ultimo”. In questi giorni, complice la forza del linguaggio di papa Francesco e l’elezione dell’onorevole Boldrini a presidente della Camera, questi termini hanno ripreso il centro dell’attenzione: Francesco auspica la Chiesa dei poveri, Boldrini la Repubblica che non si dimentica di chi è senza futuro e senza speranza. Ma siamo proprio sicuri che si stia parlando delle stesse persone?
Nella tradizione corrente i “conservatori” hanno sempre definito la povertà in senso ampio come povertà spirituale o povertà umana, mentre i “progressisti” si sono sempre lanciati sul significato sociale di tale parola. C’è però un altro significato di questo termine che troviamo nel suo stesso originale greco: ptokos. Il ptokos del mondo greco è l’indigente, il mendicante mentale, colui che ha bisogno dell’altro per compiersi. Nei Vangeli i poveri sono i ptokoi, coloro che hanno bisogno dell’alterità per essere persone vere e compiute. Gesù non solo non dichiara guerra a questa condizione, ma la ritiene necessaria per entrare nel Regno dei Cieli. O uno concepisce se stesso come “mancante, incompiuto, bisognoso” oppure concepisce sè come “sazio”, “pieno”, “bastante a se stesso”.
La Chiesa di oggi, dice Papa Francesco, non è povera perché è autosufficiente, autoreferenziale, “bastante a se stessa” e questo la fa essere lontana dall’originale povertà di ogni uomo, di cui la povertà materiale è il segno più commovente e decisivo per ognuno di noi. Una Chiesa non è povera quando pensa agli altri, “riducendosi ad una Ong pietosa”, una Chiesa è povera quando riprende consapevolezza del suo essere mancante e bisognosa.
A ulteriore riprova bisogna evidenziare che dalla parola ptokos, nelle lingue neolatine, deriva il genere picaresco, un romanzo che ha per protagonista il mendicante povero nelle sostanze, ma – ancor di più – negli affetti. Se poi andiamo ancora più nello specifico, l’altro termine usato nel Vangelo per indicare i poveri è “piccoli”, i mikroi, coloro che hanno bisogno di crescere. Fondendo questi due elementi è ancora più chiaro che il povero, indipendentemente dalle sostanze in suo possesso, è colui che deve crescere nell’amore, colui che ancora deve imparare ad amare. È questa consapevolezza, “noi dobbiamo ancora imparare ad amare”, che forgia la società e rende capaci di perdono e di scelte nuove. Per questo certe battaglie (dai matrimoni omosessuali alla fecondazione assistita fino al divorzio e all’aborto) prima di essere un problema morale sono un problema di “arroganza dell’amore”, di chi non vuole definire sé come una persona che deve crescere nell’amore ed imparare ad amare.
La Chiesa dei poveri è questa, è la Chiesa che sa che tutta la vita dipende dalla posizione del cuore e dal nostro essere rivolti verso Cristo. Come faceva Francesco con la Sua Parola, come fa oggi il Papa con la sua costante radicalità sfidando le misure borghesi di ognuno di noi. Una Chiesa fatta di sani o di gente che aspetta di essere sana per farsi compagnia, non è cristiana, è una Chiesa da ricchi, da sazi, da soddisfatti di sé.
Una Chiesa molto comoda per la Boldrini e la sua mens rivoluzionaria, dove la povertà è un problema sociale risolvibile attraverso l’opera della politica e non una condizione dell’uomo, che rende l’uomo se stesso e che provoca gli altri uomini a mettersi in cammino per crescere nella carità e nella giustizia. La Boldrini vuole coprire con le parole il dramma della vita, papa Francesco lo vuole riaprire per permettere al nostro cuore di crescere e di diventare grande. Ancora una volta Marx e la realtà si giocano una grande partita da cui, come sempre, non dipende la riforma della Chiesa o dell’economia del mondo, ma il modo con cui io domani avrò il coraggio e la forza di dire ti amo alla persona che mi accende il cuore, nella consapevolezza di essere anch’ io un povero ptokos come tutti gli altri.