Caro direttore,
L’esito del Conclave sta già riaccendendo un’attenzione – quanto meno mediatica – sul ruolo che hanno voluto e potuto svolgere i cardinali statunitensi nell’ultima sede vacante, inedita e impegnativa: sia per la Chiesa cattolica, sia per chi ha osservato da vicino quanto è avvenuto nella Santa sede nell’ultimo mese. Pochi giorni fa – all’inizio delle Congregazioni generali e prima dell’elezione di Papa Francesco – ilsussidiario.net ha voluto ospitare alcune brevi riflessioni da parte di chi qui scrive: cioè di un giornalista cattolico, ma non specializzato in vicende ecclesiali. Se ci permettiamo di riproporre quei brevi appunti non è affatto per un retorico “noi l’avevamo detto”, ma all’opposto: eravamo stati sorpresi una decina di giorni fa e lo restiamo oggi, a Conclave concluso. E se torniamo sull’argomento non è con intenzioni polemiche nei confronti di chi ha voluto dibattere sullo spunto che avevamo sollevato, anzi: dibattiamone ancora.
Un operatore professionale dei “media” non poteva non essere colpito da come gli undici porporati provenienti dagli Usa hanno affrontato i giorni che sono seguiti al definitivo ritiro di Papa Benedetto XVI dal pontificato. Gli elettori provenienti dagli Stati Uniti fin dal primo istante a Roma hanno testimoniato unità: hanno alloggiato tutti al Pontificio Collegio Nord Americano; hanno praticato il “car pooling” per recarsi alle Congregazioni generali e tornare su uno stesso piccolo bus; si sono alternati nei briefing quotidiani con la stampa fino a che hanno ritenuto di accogliere l’invito dei confratelli a sospenderli. E’ stato facile – forse non solo per i “media” – provare a ridurli a caricatura yankee: l’arcivescovo di New York, Tim Dolan, è stato paragonato addirittura al “quarterback” di una squadra di football. Altrettanto facilmente, altri hanno paragonato il “team” agli Irish, la celebre squadra dell’Università di Notre Dame, il più importante ateneo cattolico Usa: a ogni partita nello “stadium” di casa, la direzione d’attacco preferita dalla formazione gialloblu è tradizionalmente quella che guarda a un gigantesco “murale” che ritrae il Cristo. E quando mercoledì sera il cardinale Dolan ha tenuto il primo incontro stampa post-Conclave, a meno di un’ora dall’affaccio di Papa Francesco dalla loggia di San Pietro, ad alcuni può essere effettivamente sembrato un press-briefing a caldo: per commentare un Jesus touch down, come sono affettuosamente, orgogliosamente chiamate le mete degli Irish sotto il murale.
Il touch down, in ogni caso, c’è stato. E non è stato l’esito numerico del Conclave: l’elezione di un cardinale “delle Americhe” versus gli altri porporati – europei – che hanno ricevuto attestazioni di fiducia durante i cinque scrutini. Ripetiamo la nostra esperienza di giornalisti: è stato difficile, dieci giorni fa, non cogliere l’unità sincera e orgogliosa di una Chiesa che ha attraversato anni difficilissimi: sul piano spirituale e materiale. Undici cardinali “uniti” sono l’opposto di undici persone “omologate”: nessuno può pensare, ciò che infatti non è, che il cappuccino irlandese-ispanico arcivescovo di Boston sia un clone dell’arcivescovo della Grande Mela, che il porporato texano dal cognome italo-americano abbia la stessa umanità e la stessa cristianità del confratello di Chicago, di Los Angeles, di Washington. E lo stesso vale per le loro comunità.
Per questo – a nostro umile avviso – chi ha scambiato la “carità” reciproca dei pastori di una Chiesa per banale “esibizione mediatica” si è sbagliato (e continuerà a sbagliarsi). Così come chi non si è interrogato fino in fondo sul significato di invitare ogni giorno i giornalisti di tutto il mondo a conversare “senza schema” sul Conclave. Non da ultimo: la gestione quotidiana di questa delicatissima “interfaccia” era affidata a Sister Mary Ann Walsh. Una donna: ben dentro la Chiesa.