Papa Francesco, prima del suo primo Angelus, ha celebrato la Messa nella chiesetta vaticana di Sant’Anna, e poi è sceso in strada, ha salutato, abbracciato, stretto mani. Tra queste, quelle di Pietro Orlandi, “fratello di Emanuela!”, avrebbe detto il Pontefice. Sa che questa storia è una ferita aperta e purulenta, che ha infettato per decenni l’immagine della sua nuova casa. Subito Pietro Orlandi, prontamente riconosciuto dai cronisti, si è affrettato a dichiarare che il Papa è parso attento, deciso a fare chiarezza, pronto a riceverlo, e che è certo che il muro di silenzio di due pontificati ora sarebbe finalmente crollato. Finalmente.



Finalmente è la parola più usata per commentare questo inizio di Pontificato dell’uomo venuto dalla fine del mondo. Finalmente un Papa che chiede una Chiesa povera. Che parla con semplicità alla gente. Che sceglie l’umile croce di ferro, al posto di quella dorata offertagli dal cerimoniere. Che parla a braccio. Che scompiglia i piani della sicurezza vaticana. Che dice buonasera e buongiorno, e buon pranzo, e vuole trasparenza, luce, altro che Ior e misteri da Vatileaks, che azzopperà la curia, eccetera. Può darsi. E va tutto bene, è tutto così stupefacente, così inedito, così tenero: è un approccio umanissimo e diverso, cui ci abitueremo in fretta, purtroppo. Purtroppo, perché non so quanta gente abitualmente assisterà all’Angelus, tra un mese in avanti. Ma va tutto bene, ci mancherebbe, dopo la tristezza per un Papa che lascia, la gioia anche un po’ esaltata per quello che arriva.



Don Bosco diceva ai suoi ragazzi che non bisognava gridare Viva Pio IX, ma Viva il Papa, ed è bello che la gente sia affezionata all’uno, all’altro, e poi all’altro ancora. Al Padre. Che è sempre quello giusto per il tempo che ci è dato. Però nel “finalmente” che passa di bocca in bocca e da cronaca ad editoriale sui giornali, c’è il frettoloso congedo da Benedetto XVI, mai del tutto compreso, c’è la volontà di contrapporre un pontificato all’altro, di tirare per la mantellina bianca il nuovo Papa e usarlo per far dire alla Chiesa quel che vogliamo, quel che ci è comodo. Per inventarci rivoluzioni che confezionino una Chiesa ad personam, la mia, la tua, la loro. Finalmente. Una Chiesa diversa, e buttiamo via quella precedente. Finalmente, una Chiesa nuova, dove nuovo significa “progresso”, cioè andar dietro al mondo, e ai suoi padroni.



Non li sentite? Già sussurrano di collegialità episcopale, ma per screditare il ruolo del Papa, non per amore della fratellanza. Già parlano di dialogo ecumenico, come se prima non ci fosse mai stato, per parificare ogni fede, per annacquare ogni identità. Già danno per certa la fine del celibato ecclesiastico, il placet agli anticoncezionali, ai rapporti prematrimonali, alla comunione ai divorziati, l’aborto in certi casi, la buona morte in cert’altri. E così via.  

Questa sarebbe la chiesa nuova. Peccato che quest’oggi, all’Angelus, il Papa abbia invitato il mondo ad accostarsi il più possibile al sacramento della confessione. Che abbia invitato a chiedere a Dio misericordia, e ad usarla a nostra volta. Ma confessarsi è un esercizio scomodo, umiliante e trascurabile, su questo si può soprassedere, e tradurre le parole di Papa Francesco in una regola morale, tipo non vendicarsi, non godere del male altrui, basta e avanza.

Che c’entra la storia di Emanuela Orlandi? C’entra, perché l’assillante richiesta di chiarezza, rivolta da subito con contorno mediatico al nuovo Pontefice, è un atto di accusa al buio di tante risposte non ricevute, a tanti misteri non risolti. Si può capire. I familiari hanno il dovere e il diritto di spendere la loro vita per sapere la fine di una ragazza quindicenne sparita dopo una lezione di musica, e risucchiata in un buco nero torbido: finché non sarà esplorato e svelato sporcherà inevitabilmente chiunque l’abbia sfiorato di striscio. L’attentato a Wojtyla, coi Lupi grigi e Ali Agca, che non tace mai, oppure no, erano i servizi segreti bulgari; il caso Calvi e Marcinkus, che tanto sono morti e non possono spiegare nulla, e poi la banda della Magliana, che con film e fiction di Romanzo Criminale è un hit per tutti gli adolescenti.

Però è vero che la ragazza, figlia di un dipendente vaticano, è sparita. Che un Papa ha rivolto al mondo un appello per lei, fatto non usuale, e troppi si sono affrettati a rispondere, negli anni, con rivelazioni e depistaggi inquietanti. Che una tomba di un delinquente stava in una basilica santa e antica, e non doveva esserci, a meno di do ut des che non si comprendono, non si debbono comprendere neppure nell’economia del perdono e delle elemosine. 

Che un esorcista di fama, cui la gente dà credito, e con ragioni, sostiene dolorosamente la pista tanto semplice e orrenda del delitto a sfondo sessuale, avvenuto con copertura di importanti personalità vaticane. E se fossero sacerdoti, prelati, la sporcizia nella Chiesa di cui parlava Papa Ratzinger sarebbe ignominia, da affogare con una macina al collo, come insegna il Vangelo. Se qualcuno sapeva, e non ha parlato, è un’infamia e un’onta. Se qualcuno sa, e non parla, è assolutamente giusto e sacrosanto che si faccia di tutto per tirar fuori la verità. Ma supporre che il Papa neoeletto si trasformi in agente speciale, che si mette a fare indagini e snocciolare carte, tra spie e microspie, che si erga a risolutore infallibile di ogni pagina scura, forse è un po’ troppo.  

Forse con la sua mansueta cordialità, con l’attenzione all’umano che ci sta testimoniando con paternità tenera e sollecita, il vescovo di Roma Bergoglio sa chinarsi sulla sofferenza di tutti, tanto più dei familiari di una giovane cittadina vaticana. Siamo certi che pregherà, chiederà, solleciterà. E magari non arriverà a nulla, dopo tanto tempo, dopo tanto male occultato e tante depravate azioni malvage custodite colpevolmente in quello che dovrebbe essere il più santo dei luoghi. Che santo non è, perché abitato da uomini, preda del male, come ben sappiamo. Anzi, del diavolo, del demonio, come volete chiamarlo. Come lo chiama senza reticenze papa Francesco. Che è un oscurantista, per questo, non lo dite?

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