In questi ultimi giorni, in cui il mondo dell’informazione appare in perenne affanno nell’inseguire le notizie che vorticosamente si susseguono, ho riscontrato con un certo fastidio e prurito intellettuale, come – in merito all’elezione del nuovo Papa – una buona fetta di pensatori e illustri giornalisti abbia già iniziato a pontificare (forse con una “curiosa” inversione di ruoli) sull’appena iniziato pontificato di Francesco I e con dotte prolusioni lo stia etichettando già come un novello Gustavo Gutiérrez. Il grido di liberazione che accompagna le loro riflessioni e che dipinge la figura di Francesco I di tinte sinistroidi – non si sa bene poi con che legittimità – si scandisce in tre sillabe: povertà. Occorre allora capire che cosa sia la povertà, per evitare qualsiasi riduzione e visto che questa grande parola, innanzitutto cristiana, è stata proprio dal Papa ripetuta più volte in questo inizio di pontificato – basti ricordare da ultimo l’appello lanciato nell’incontro con i giornalisti: «Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri».
La povertà di cui Francesco sta parlando non è prima di tutto una particolare modalità di approccio e soluzione dei pur veri problemi sociali, una tensione stoica e cieca della volontà ad essere caritatevoli, né tantomeno l’adesione formale ad attività di volontariato. Non si può capire di che “povertà” il Papa sta parlando, se non si coglie la ragione viva che è a fondamento di tutta una serie di pratiche concrete, che si pongono, però, solo come effetti in relazione ad una causa che le fa essere e vivifica ad ogni istante. La povertà è innanzitutto un giudizio. Al centro della povertà non stanno primariamente le tematiche sociali (la povertà materiale, la disoccupazione ecc..), – che è stato appunto il pretenzioso errore della Teologia della Liberazione- ma un Altro: il cuore della povertà è Cristo. Del resto è proprio Francesco a ricordarlo con una semplicità quasi imbarazzante e con buona pace di quella fetta di borghesia militante che lo ha già battezzato come il Papa “di sinistra”, servendosi di una definizione di povertà tanto materiale, quanto appunto “povera” del suo più autentico significato. Se non fosse così infatti: «Noi possiamo camminare quanto vogliamo, possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va. Diventeremo una ONG assistenziale, ma non la Chiesa, sposa del Signore». Quello di cui si sta discutendo, allora, è una povertà, il cui senso va ben aldilà di ogni richiamo pauperistico o moralistico alla spoliazione esteriore dei beni materiali. La povertà fonda il proprio valore, la propria certezza sul fatto che è un Altro a compiere ogni cosa. Solo questa consapevolezza costruisce una speranza solida per il futuro, perché il significato di quest’ultimo è assicurato dall’unico possesso certo: il possesso di Cristo presente, e quindi solo questa prospettiva dà ragione dell’entusiasmo con cui San Paolo può dire: «Sono persuaso che Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento nel giorno di Cristo Gesù». Questo giudizio porta con sé due corollari, che sono appunto i tratti che fin da subito abbiamo visto segnare il volto del Papa: letizia e libertà.
La letizia nasce dal possesso certo di ciò che unico è in grado di dare consistenza all’esistenza, di ciò che massimamente la soddisfa e che solo è in grado di rispondere alla domanda che proprio San Francesco insistentemente si faceva: «Quid animo satis?». La povertà da cui nasce la letizia è l’affermazione di un Altro come significato di se stessi, il possesso di qualcosa che duri per l’eternità. Per questo non c’è più bella definizione della letizia di quella che riecheggia ancora una volta nelle parole di San Paolo, questa volta nella lettera ai Corinzi: chi ha, viva come se non avesse.
Solo in questa esperienza di soddisfazione e gratitudine che invade il volto del nuovo Pontefice, è possibile spiegare le tracce di un’impensabile libertà, nei gesti, nelle parole con cui ha iniziato il proprio compito. Si è liberi perché nulla più manca, si possiede tutto, perché tutto ci appartiene. Ma questo può accadere solo perché si possiede, si ha ciò che è necessario, ciò che rende certa, stabile e consistente l’esistenza.
La povertà è allora tutt’altro che una dimensione di esteriore contrizione; povertà non è austerità, ma è la descrizione del possesso più autentico delle cose: essere poveri significa possedere.
Questo strabiliante paradosso che la fede permette di vivere come definizione essenziale della vita è l’unica ragione in grado di spiegare gli atteggiamenti concreti, materiali che proprio da questo giudizio derivano, senza il quale però rimangono come ideali tanto nobili, quanto però irraggiungibili. Occorre pertanto immedesimarci con l’esperienza di papa Francesco, per capire veramente la portata del cammino che con lui vuole farci fare, senza lasciarsi andare ad interpretazioni tanto semplicistiche, quanto però riduttive, inserendo il contenuto del suo magistero in griglie interpretative che ci possano assicurare una definizione della sua persona, rigida e quindi non aperta a eventuali scomodi imprevisti. Senza questo esercizio conoscitivo su che cosa sia la povertà autentica per noi ora, la sua comparsa sulla balconata di San Pietro la sera dell’elezione senza mozzetta e con la croce di ferro, le motivazioni con cui ha scelto per sé il nome del poverello di Assisi restano, in fondo, una pura tattica mediatica e ci dimenticheremmo, come dice Iacopone da Todi, che invece: «Povertate è nulla avere / e nulla cosa poi volere; / ed omne cosa possedere / en spirito de libertate».
(Giacomo Fornasieri)