Roma, giovedì scorso, alba. Una ragazza partorisce in bagno, da sola.
Crampi alla pancia e poi esce questa “cosa”. Forse mugola, forse no, gli inquirenti devono stabilirlo, è la differenza che fa l’infanticidio.
Lei lo caccia in un sacchetto di nylon, si sa, è bagnato; poi, cosa farne?
Si sveglia la sorella con cui vive; non è il caso che lo sappia, portiamolo via, in borsa e usciamo. Fuori, nella giornata ormai luminosa della capitale, la città meravigliosa che l’accoglie come in un abbraccio. E’ tutta quella luce che glielo fa dimenticare, il caffè sotto casa, le vetrine, l’amica del cuore. Con cui passeggiare, libera tutto il giorno, fino a che il sole si consuma e si alza la serata, la costellazione della notte. Aperitivo, alcool che scalda, ancora non è ora di pensare a tutto quello che ho chiuso nella borsa.
Al cuore morto. 
Fino a che il corpo non si ribella all’anima, quella sì che è quasi morta, boccheggia, si agita l’amica, l’emorragia la porta via.
È il corpo a chiedere, a denunciare tutto e subito ai sanitari, un ultimo lampo di paura, e prima di arrivare all’ospedale finalmente la borsa viene svuotata, il contenuto giù nel cassonetto.
Così ve la racconto, non con la lingua puntuale dei giornalisti, ma con quella sbrigativa dei poeti.
Con una lingua che incendia: e picchia.
“Una storia agghiacciante, dai particolari atroci, rispetto alla quale non ci sono parole adatte ad esprimere lo sdegno che si prova – ha commentato il vicesindaco di Roma capitale, Sveva Belviso – Non capisco come si possa arrivare a tanto chiudere una creatura appena nata in una busta e gettarla in un cassonetto. È  qualcosa che va al di là di ogni possibile comprensione umana. L’auspicio, se di ciò è possibile parlare davanti a un dramma come questo è che alla responsabile venga comminata una pena adeguata al crimine commesso”. È la lingua dei politici.
Vorrei chiedere la lingua del cuore: vorrei attingere a quella della pietà. Non quella della comprensione, beninteso, ma quella della “pietas” lo sguardo di chi conosce il perdono: perché ha ben chiaro il peccato.
Vorrei farvela vedere così, in tutto il suo squallore, in tutta la sua follia, e non dimentichiamo il grande egoismo. Tanto grande che non ha permesso di far vedere a questa figlia suo figlio.
E a sua madre la pancia della figlia. E la sorella non si è accorta dei suoi crampi tremendi alla pancia.
È stato il suo corpo a parlare, a urlare, a rifiutarsi di stare assieme a una tale anima.



Vorrei parlare con la lingua dell’ostetrica, del medico che le ha zaffato l’utero, che l’ha acciuffata per i capelli, quell’anima. Pallida, madida, pentita.
E di chi, magari mentre era sotto anestesia in sala operatoria, l’ha accarezzata.
Perché io l’ho fatto, dico, l’ho fatto: conosco la morsa nel petto della pietà, le ho viste, le assassine di piccoli innocenti non voluti stese su lettini sterili e incoscienti.
Avevano la faccia di donne normali.
Quelle che scelgono di abortire, una semplice e legale interruzione di gravidanza, nei tempi previsti dalla legge.
Ma anche quelle che decidono di abortire figli imperfetti, già grandini; e vi giuro, li ho raccolti questi figli, battezzati. E lasciati morire. In una arcella, più dignitoso della borsa di nylon. Destinati all’inceneritore. Non alla raccolta dell’indifferenziato. Ma sempre rifiuti, rifiutati.
In Olanda, riportano studi autorevoli, si stima che nel 2030 non nasceranno più bambini mongoloidi, affetti cioè dalla sindrome di Down. Ma non perché guariti. Solo eliminati prima.
Io continuo a sostenere che le facce delle donne sono uguali.
E anche il peccato ha il medesimo volto.

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