Verità angoscianti che vengono piano piano a galla. Se la vita non era stata clemente con Lea Garofalo, cresciuta nel crotonese e coinvolta nella faida sanguinaria tra la sua famiglia e quella dell’ex Carlo Cosco, la morte non è stata meno dura, per lei. Il suo corpo, come è emerso dalla recente confessione di Carmine Venturino, ex fidanzato della figlia, fu bruciato in un fusto di metallo e i suoi retsi furono nascosti a San Fruttuso, località di Monza. Lea fu uccisa con un colpo di pistola alla testa dall’ex marito nonché padre di sua figlia Denise la notte del 24 novembre 2009: e questo perché la donna nel 2002 aveva deciso di diventare collaboratrice di giustizia, andando contro i Cosco, pronta a “cantare”. Durante primi anni fu sottoposta a regime di protezione ma ad aprile del 2009 decise di sospendere la protezione e iniziò a riavvicinarsi pericolosamente all’ex marito.  E questo è il punto meno chiaro della vicenda: la Garofalo continuava a cercare il marito, cui telefonava e mandava messaggi, anche dopo il primo tentativo di rapimento, avvenuto nel maggio del 2009. Perché allora accettò, la sera in cui sarebbe stata uccisa, un nuovo abboccamento con Carlo Cosco? Con una scusa, infatti, l’ex marito le diede appuntamento a Milano e, attiratala in un appartamento, la strangolò insieme al fratello Vito. A disfarsi del cadavere fu Venturino che, condannato a sei ergastoli (ha 26 anni), ha deciso di collaborare con gli inquirenti per ricostruire la morte di quella che era la madre della sua ragazza. “Fu uccisa materialmente da Carlo e Vito Cosco”, ha fatto sapere il pentito tramite i suoi legali, “che la mattina dopo hanno portato il cadavere nel terreno di San Fruttuoso, a Monza. Qui, già dal 25, è iniziata la distruzione del cadavere, che non è stato sciolto nell’acido, ma carbonizzato fino a dissolverlo completamente”. Alla cremazione avrebbe provveduto lo stesso Venturino, insieme a Curcio Rosario, un altro del clan. Una nuova verità, seppur piccola, che emerge in questo quadro dalle tinte fosche, dipinto con i colori dell’omertà e del sangue e che fa sperare, dice l’avvocato della sorella di Lea, Marisa, costituitasi parte civile, in una svolta debellatrice nei contronti della ‘ndrangheta che partirebbe proprio dalle donne dei boss, il cui cuore sta inziando, pur tra la paura, a ribellarsi proprio a quegli uomini che esse amano ma dei quali non riescono più a sopportare in silenzio i delitti.