“Mamma riportami a casa, voglio che finisca questo incubo”: con queste parole il bambino di Cittadella portato via a forza dagli assistenti sociali per essere messo in una casa famiglia ha riabbracciato la madre ieri sera. La sentenza della Corte di Cassazione ha revocato la decisione della Corte di appello di Venezia, che aveva affidato il bambino al padre.



Nel 2012 la corte d’appello aveva infatti stabilito l’allontanamento del bambino dalla madre. Il 10 ottobre scorso la polizia aveva prelevato il bambino da scuola e il fatto era stato prima ripreso con un telefonino, e poi reso pubblico, dalla zia, suscitando in tutta Italia reazioni di sdegno di fronte al trattamento subito dal piccolo, trascinato via con la forza. 



I genitori si sono separati nel 2005 e i conflitti sull’affidamento del figlio sono andati avanti negli anni, fino a che il padre ha accusato la madre di aver causato al figlio la sindrome di alienazione parentale (Pas), ottenendone in un primo tempo l’allontanamento dalla casa della donna e poi l’affido. La madre racconta che in questi 5 mesi in cui ha cercato di riottenerne la custodia ha potuto vedere il bambino solo tre volte a settimana per un’ora.

Il padre si definisce “un uomo a cui hanno portato via suo figlio”, dopo che per anni gli era stato impedito di vederlo. Le dichiarazioni dei genitori sembrano ritrarre un bambino strappato alla sua casa, alle sue abitudini, ma che allo stesso tempo accetta e cerca l’affetto di entrambi i genitori. Ilsussidiario.net ha chiesto un commento a Claudio Risé. 



Una vicenda del genere, che ha visto il bambino portato via alla madre e al padre, contro la propria volontà, quali ripercussioni psicologiche può avere sul piccolo?

Sicuramente ripercussioni molto gravi. Perché il bambino aveva probabilmente molto bisogno di essere tolto dalla custodia della madre, secondo gli atti del processo e secondo la motivazione che ha dato il giudice. Ma l’aspetto disastroso è quello del conflitto, di questa lotta tra i genitori, che è diventata una specie di lotta di strada e quindi è un’esemplificazione di come l’attuale normativa sulle separazioni sia vacillante e poco comprensiva dei bisogno psicologici del bambino.

Che cos’è la sindrome da alienazione parentale (Pas) di cui hanno parlato i giudici riferendosi al bambino conteso? 

Si tratta del disturbo indotto nel bambino dal fatto che uno dei genitori, generalmente il padre, ma può trattarsi anche della madre, viene alienato, cioè fatto sparire dalla presenza affettiva, e spesso fisica, del bambino. Questo è molto grave perché il bambino ha bisogno della presenza di entrambi i genitori, e ha bisogno della percezione di un accordo su di lui pur nel disaccordo di coppia dei genitori. Mentre in queste situazioni finisce col percepisce di essere anzi una parte importante del dissidio dei genitori e questo gli causa sensi di colpa e insicurezze.

Come è possibile che una malattia sia riconosciuta come reale in un paese, come era in Italia fino a ieri, ma non in un altro? 

C’è un grande dibattito su questa sindrome, soprattutto c’è una differenza marcata in tutti i paesi tra le associazioni professionali di neurologi infantili, i quali per esperienza sanno benissimo che questa sindrome c’è e come funziona perché sono quelli che incontrano i bambini, e i manuali di diagnostica (i vari DSM 4, 5, ecc.) che sono generalisti e procedono da considerazioni teoriche, meno basati sull’esperienza clinica in psicopedagoia infantile, e quindi sono meno flessibili. Inoltre nelle questioni delle diagnosi, questi grandi manuali generalisti sono sottoposti a costanti pressioni politiche da parte dei gruppi di interesse, quindi sono clinicamente poco rilevanti perché diventano spesso dei manifesti politici. 

 

In queste situazioni viene tenuto conto della volontà dei minori o la valutazione è completamente in mano ai giudici o agli assistenti sociali?

Dipende dai casi e dalla sensibilità dei giudici, da come il caso viene condotto. Questa può essere vista come una grave lacuna dell’attuale normativa, in cui al parere dei bambini viene data poca attenzione. Spesso addirittura non vengono ascoltati. Ci sta che il giudice possa fare la tara a quello che il bambino dice, per capire se sia stato imbeccato o meno da uno dei genitori, ma sarebbe importante che lo ascoltasse. Invece io vedo chei bambini cercano in qualche modo di essere ascoltati, ma per le attuali procedure questo normalmente non viene concesso. 

 

La decisione di affidare il bambino al padre era stata presa dopo che per anni l’uomo non era riuscito a vederlo. Quali possono essere le conseguenze in queste situazioni di separazione in cui un figlio perde il contatto con uno dei genitori? 

 Una grande angoscia, che il bambino elaborerà come può. In questo caso sembra che il bambino sia capace di organizzazione – del proprio tempo, delle proprie manifestazioni affettive -, ma questo non esclude che ci siano sofferenza, isolamento, rabbia, di fronte ad un comportamento così devastante da parte di uno o entrambi i genitori. 

 

In casi di separazione cosa è importante fare per aiutare i figli a mantenere il miglior rapporto possibile con entrambi i genitori? 

Innanzitutto bisognerebbe porsene il problema, mentre invece i giudici non se lo pongono. Quindi partire da lì per avviare una procedura di ascolto di tutte le parti coinvolte, che possono offrire testimonianze, orientarsi verso l’interesse del bambino, non privilegiando l’una o l’altra parte. Direi che il giudice può fornire orientamento nel corso di queste vicende, può far sentire il suo peso, facendosi carico di questa parte del lavoro che in effetti in Italia non è previsto dai codici. Si tratta di sobbarcarsi un impegno che è un po’ tutto da inventarsi, ma come i giudici sanno essere creativi in vari ambiti, adesso c’è l’esigenza di una loro assunzione di responsabilità nei confronti dei bambini.