Passati i giorni del Conclave e della grande sorpresa per il dono di Papa Francesco, il nostro paese è tornato ai suoi incubi quotidiani fatti di faziosità, di urla e di infantilismi politici celati da senso di responsabilità. Di fronte a tutto questo viene spontaneo o rifugiarsi nel Vangelo di Francesco, come la medicina ideale per evitare ogni argomento che richieda un’intelligenza che vada oltre l’assenso di fede, oppure mettere nel baule l’infatuazione papista e tornare a vestire i panni del militante convinto in linea col proprio partito. Tra spiritualismo e dualismo ci deve essere una terza via che ci consenta di stare di fronte al caos della politica con lo stesso cuore con cui siamo stati di fronte al Conclave. Effettivamente una strada c’è e passa per il Colle Palatino di Roma dove, dal II secolo dopo Cristo, riposa un’epigrafe molto stilizzata di un uomo proteso verso un asino crocifisso. Sotto tale iscrizione l’anonimo autore ha lasciato il mottetto “Alessandro adora il suo Dio”. Il verbo adorare, ricordó Benedetto XVI nell’omelia ai giovani a Colonia nel 2005, ha due valori: uno proveniente dal greco – proskunesis – che significa “piegarsi” e uno che proviene dal latino – ad~orare – che vuol dire “fino a toccare con la bocca”. Adorare, pertanto, significa piegarsi fino a toccare con la propria bocca il pavimento. I cristiani riservano questo atteggiamento solo a Gesù Cristo. Ed è questo il contributo che il cristianesimo dà al mondo. Infatti, anche le letture con cui si apre la Settimana Santa nel giorno della Domenica delle Palme, sono un invito potente a ricordarci che “i fatti di Gerusalemme” avvennero perché “nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, nei cieli, sulla terra e sotto terra”. Solo Cristo, quindi, merita la nostra genuflessione e Cristo – ci ricorda san Paolo – non è un buon sentimento o un bel quadretto, ma è la realtà, è ció che troviamo in fondo ad ogni realtà. Gesù Cristo si fece obbediente fino alla croce perché noi imparassimo ad inginocchiarci non alle nostre idee o ai nostri sentimenti, ma alla realtà attraverso la quale tutti i giorni ci viene offerta la Sua Presenza. L’eterna sfida tra ideologia e semplicità di cuore si gioca su questa semplice genuflessione che noi possiamo fare quotidianamente alle idee e ai sentimenti, piegando le ginocchia un attimo prima di dire Tu, un attimo prima di toccare la realtà.
Succede nelle nostre case, dove le immagini sulla vita di nostra moglie e dei nostri figli sostituiscono la realtà del loro cammino, succede tra amici o sul luogo di lavoro, dove chi ci sta accanto è giudicato in eterno a partire da quello che ha combinato e non dal fatto che ora egli ci è nuovamente donato, succede nella politica o nelle tifoserie (sportive o religiose che siano), dove pur di sostenere il proprio partito si arriva ad accettare cose contro senso indicate dal capo o dal guru di turno come la linea da tenere e da difendere. Insomma: ognuno di noi presta il cervello e si genuflette alla propria ideologia finendo per perdere di vista la realtà, anche se essa significa famiglie straziate dalla miseria, imprenditori che si uccidono, aziende che continuamente chiudono. Ma non importa: quel che importa è sostenere la linea, dare legna all’idea. Lo facciamo con tutto, anche col Papa che – magicamente – viene arruolato nelle file del nostro partito o schiacciato dal peso del nostro pregiudizio. Siamo pronti a inginocchiarci a tutto pur di giustificare i nostri sentimenti e le nostre idee proprio come fecero quei Giudei, il giorno delle Palme, di fronte all’autorità romana. Per questo Gesù è morto in Croce: per riaprire a tutti la strada della realtà, della vera adorazione, che non è riservata ai nostri progetti o alle nostre sensibilità, ma che è destinata al valore e al significato delle cose che è Cristo stesso. I cristiani sono utili al mondo non quando si legano ad un potere o si schierano in un partito come una lobby di influenza e di determinazione: i cristiani sono utili al mondo quando adorano Gesù Cristo, quando non si fermano un attimo prima della realtà, quando non vendono il loro cervello a nessun guru e a nessuna ideologia, quando – insomma – pongono nella confusione dei tempi quell’asinello crocifisso che da duemila anni è il cuore profondo di ogni loro tentativo di bene e di verità. In forza di questo, la loro presenza diventa foriera di serietà e di maturità, fuga da quell’ideologia che – diceva Gaber – non è altro che “l’ossessione della propria diversità”.
Diversità che poi porta a marciare un deputato o un senatore su un tribunale della Repubblica, diversità che consegna due ultras ideologici alle massime cariche dello Stato, diversità che trasforma in uno spettacolo da cabaret le consultazioni per il governo del paese. E tutto questo mentre milioni di persone attendono che qualcuno guardi la realtà, che qualcuno superi gli steccati e dia risposte concrete, che qualcuno si impegni con forza per aiutare seriamente il nostro paese come duemila anni fa la folla, lungo la via, sperava che qualcuno aiutasse quell’uomo dilaniato dal peso della Croce. Questa, in definitiva, sarebbe la domenica delle Palme di vera adorazione di cui avremmo bisogno, questo nuovo sguardo, questa nuova forza umana e civile che nasce dalla serietà e dall’onestà con se stessi, questa capacità di essere uomini liberi fino in fondo, ma ancora una volta quello che probabilmente otterremo sarà solo un’altra domenica elettorale. Non subito, non oggi, magari fra qualche giorno, magari a giugno, quando le Palme saranno solo un ricordo. Con buona pace della realtà, di Cristo e del Colle Palatino.