Due donne libere. E liete. Anche se agli occhi del mondo appaiono come “recluse”. L’una, Laura, prigioniera del proprio corpo in una stanza d’ospedale. L’altra, Cecilia, prigioniera della propria vocazione, dietro le sacre grate della clausura in un monastero benedettino.

Eppure quanta letizia c’è nelle loro parole, quanta voglia di godersi fino in fondo la vita, quanta capacità di perdonare e di cogliere l’essenziale dei fatti e delle circostanze!



Laura e Cecilia si sono incontrate la prima volta il 29 gennaio del 2012, quando la suora benedettina ottenne il permesso di uscire dalla clausura e visitare all’ospedale Cannizzaro la studentessa di Sortino. Ma era già come se le due si conoscessero da tempo. Per lo meno da quando accadde “l’incidente” che portò il nome di Laura Salafia sulle pagine della cronaca nazionale (Laura lo chiama così quel terribile giorno degli inizi di luglio del 2010 in cui all’uscita dall’Università si ritrovò, vittima innocente, nel mezzo di una sparatoria e fu raggiunta da una pallottola che lesionò il suo midollo spinale paralizzandola dal collo ai piedi) e le benedettine di Catania cominciarono a pregare ogni giorno per quella ragazza, che neppure conoscevano.



Anzi, a mettere le suore sulle tracce di Laura era stato allora un ergastolano, che sconta la sua pena in una casa circondariale di Milano e che leggendo sul quotidiano La Sicilia la vicenda della Salafia aveva scritto alle monache benedettine perché pregassero per la guarigione della giovane. Da quel momento è nato un rapporto epistolare che ha coinvolto anche Laura e che, misteriosamente, ha prodotto nell’ergastolano un cammino di fede.

Il secondo incontro di Laura e Cecilia, specialissimo e per nulla riservato, s’è consumato nei giorni scorsi in un teatro dei salesiani davanti a oltre duecento studenti del liceo classico statale “Nicola Spedalieri” di Catania.



Di questa singolare amicizia suor Cecilia dice: «Siamo due persone apparentemente diverse, ma accomunate da una mano misteriosa che ci ha fatto incontrare. Questa mano di cui vi parlo è la mano di Gesù vivo e presente».

Quanta fatica per realizzare questo secondo incontro, e quanta determinazione soprattutto da parte delle due protagoniste. Suor Cecilia ha lasciato il silenzio della clausura, col permesso della priora madre Giovanna, per immergersi nel caos della città e rendere testimonianza della sua vita. Per Laura c’era bisogno di una équipe medica e infermieristica che l’accompagnasse, di un permesso speciale per uscire dalla struttura ospedaliera e, perché no, del coraggio di affrontare a viso aperto giovani fra i 14 e i 19 anni pieni di domande, anche scomode.

Ma, a volte, quanto più le imprese sono ardue, tanto più risultano avvincenti.

Il dialogo in pubblico fra Laura e suor Cecilia e delle due con i giovani ha lasciato tutti a bocca aperta.

Anzitutto per l’accento che esse hanno posto sulla parola letizia. Laura dice: «Sono felice che in quel giorno dell’incidente la pallottola non mi abbia tolto la vita». E ai giovani che l’interrogano consiglia: «Cercate sempre di trovare nella vita tutto ciò che di positivo possa avere, non arrendetevi mai di fronte alle difficoltà, andate avanti con coraggio e abbiate fiducia in Dio perché Lui è sempre accanto a noi anche quando siamo soli».

È un mistero come si possa trovare una posizione esistenziale simile in una condizione di prigionia fisica. Laura non nasconde i suoi problemi. Il corpo è come una prigione («Per arrivare qui – confessa – ho avuto tante difficoltà…»), ma il cuore e la mente sono protesi alla massima libertà.

Già, come fanno a parlare di libertà una ragazza paralizzata e una claustrale? Tutto si gioca in un sì o in un no di fronte alla vita. «Hai perdonato colui che ti ha sparato? », chiede una ragazza. E Laura: «Sì, il perdono è la prima arma che ti rende libera. Non perdonare non serve a nulla. Il rancore non ti fa crescere, ti incupisce: il perdono ti fa andare oltre».

E suor Cecilia racconta. «La libertà è seguire la verità della vita. Non ho deciso di diventare monaca per un mio capriccio, è accaduto che Dio mi ha trovato e mi ha proposto una strada: io ho detto sì».

I ragazzi parlano del vuoto che li attanaglia e della fatica che fanno per riempirlo e per non lasciarsi ferire da esso. «Il vuoto – risponde suor Cecilia – non va riempito, va vissuto. Esso è qualcosa che ci chiede di interrogarci sulla radice della mancanza che avvertiamo. Questa inquietudine non è una maledizione, è una molla salutare, un trampolino di lancio». E Laura: «Questo senso di vuoto ce l’hai perché dentro di te non hai trovato ancora la strada che vuoi intraprendere. Dedicati con amore alle cose che più ti rendono felice e non dimenticare mai che accanto a te c’è Dio».

Laura, dal suo letto d’ospedale – che spera di poter lasciare tra non molto – ha ripreso a studiare per gli esami all’università e prosegue la sua collaborazione col quotidiano La Sicilia. Suor Cecilia è tornata nel suo monastero a pregare e lavorare, perché come dice san Benedetto: la preghiera è lavoro, e il lavoro preghiera.