“A 20 anni dalla strage di via D’Amelio non si conosce ancora la verità su quanto è successo per la mancanza di ‘laicità’ nello svolgimento delle indagini fin dal principio. Non c’è stata la disponibilità mentale a esaminare tutti gli elementi sul tavolo, perché si voleva dimostrare a tutti i costi la capacità di reagire da parte dello Stato”. Dopo l’apertura del processo quater per l’assassinio di Paolo Borsellino e di altre cinque persone avvenuta il 19 luglio 1992, Ilsussidiario.net ha intervistato Giorgio Petta, giornalista de La Sicilia ed esperto di mafia e di maxiprocessi, che quel giorno fu il primo cronista ad accorrere sul luogo della strage. Per Petta, “la trattativa Stato-mafia non iniziò negli anni ’90, ma è stata documentata da un’inchiesta di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti del 1876. Non si è voluto leggere ciò che era già sotto gli occhi di tutti, perché ancora una volta ha prevalso la logica del ‘non vedo, non sento, non parlo’”.



Perché in 20 anni non si è riusciti a ricostruire la verità sulla strage di via D’Amelio?

Lo ha impedito la mancanza di “laicità” nello svolgimento delle indagini fin dal principio. Si sono battute piste che poi si sono rivelate assolutamente insussistenti, per esempio per quanto riguarda il ruolo di Bruno Contrada, dirigente del Sisde, che per lungo tempo è stato indicato come un personaggio centrale della vicenda. Solo in seguito si è scoperto che lui in via D’Amelio non c’era mai stato e che quel 19 luglio 1992 non era neanche a Palermo.



Quali altri pezzi del puzzle non combaciano?

Per esempio si è voluto far credere che al Castello Ustveggio, sede di una scuola di specializzazione post-universitaria, ci fosse un ufficio del Sisde, e che sia stato da qui che era stata fatta deflagrare la bomba. L’unico dato di fatto è che durante la Seconda guerra mondiale al Castello Ustveggio c’era una centrale di tiro contraereo della Luftwaffe tedesca, che gli americani non riuscirono mai a colpire. Ci sono voluti anni per arrivare alla verità più banale, e cioè che chi aveva premuto il telecomando quel 19 luglio 1992 si era nascosto dietro al muro di tufo che chiude via D’Amelio in direzione nord-ovest.



In che senso prima diceva che c’è stata una mancanza di laicità da parte degli inquirenti?

Si è voluta cercare una chiave di lettura a tutti i costi con i falsi pentiti. Ma i falsi pentiti sono stati indotti, e noi non sappiamo con quali metodi. Fatto sta che ci sono investigatori della squadra mobile che sono stati indagati, e che il responsabile della squadra mobile che allora condusse le indagini, il questore Arnaldo La Barbera, oggi è morto e quindi non può più parlare. La stessa Ilda Boccassini, quando fu trasferita a Caltanisetta, scrisse una lettera rilevando tutti i suoi dubbi e le sue perplessità sul pentito Vincenzo Scarantino e sul modo in cui si erano condotte le indagini sulla strage di via D’Amelio. Il punto è che si volevano trovare a tutti i costi dei colpevoli o dare una spiegazione. Il risultato è che ora Spatuzza, portando elementi incontrovertibili, ha smentito radicalmente le dichiarazioni dei pentiti bugiardi. Grazie a lui si è scoperto così che chi volle la strage furono i fratelli Graviano.

 

Che cosa non funzionò fin dall’inizio delle indagini?

Non c’era la disponibilità mentale a esaminare tutti gli elementi sul tavolo, perché c’era la necessità di dimostrare che lo Stato aveva una capacità di reazione. Due episodi come le stragi di Capaci e di via D’Amelio, avvenute a due mesi l’una dall’altra, misero lo Stato in una condizione di profonda debolezza che non aveva precedenti. Le istituzioni italiane brancolavano nel buio, tanto che a Capaci intervennero anche agenti dell’Fbi, per collaborare nelle ricerche di elementi utili sul luogo del delitto. Per due mesi lo Stato rimase senza barra, poi in un modo o nell’altro dimostrò la sua capacità di recuperare che abbiamo visto anche in altre circostanze.

 

Lei che cosa ne pensa del dibattito sulla trattativa Stato-mafia?

La trattativa è un elemento costante e continuo nella storia di questo Paese e soprattutto della Sicilia. Non si scopre quindi nulla di nuovo. L’organizzazione mafiosa ha svolto un ruolo storico nei suoi rapporti con i poteri dello Stato per la conservazione dello status quo politico e sociale. Di solito si afferma che sarebbe stato Buscetta a rivelare per primo l’organizzazione di Cosa Nostra, ma in precedenza ci sono stati funzionari dello Stato che già alla fine dell’Ottocento avevano rivelato elementi di fondamentale importanza. Mi riferisco in particolare all’inchiesta di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti del 1876. Non si è voluto leggere ciò che era già sotto gli occhi di tutti, perché ancora una volta ha prevalso la logica del “non vedo, non sento e non parlo”.

 

(Pietro Vernizzi)