Nel mese di febbraio la Corte europea dei diritti dell’uomo ha reso due importanti decisioni che faranno sicuramente molto discutere. La prima decisione riguarda la diagnosi preimpianto per le coppie che hanno deciso di ricorrere alla procreazione assistita. Con una decisione non scritta, infatti, la Corte ha respinto la richiesta dello Stato italiano di deferire all’esame della Grande Camera la sentenza resa il precedente 28 agosto, con la quale l’Italia era stata condannata per il divieto, operante in certi casi nel nostro ordinamento, di effettuare tale diagnosi. La seconda decisione riguarda la possibilità di ricorrere all’adozione da parte di coppie dello stesso sesso: in estrema sintesi si può dire che la Corte, nella sua composizione più autorevole (Grande Camera), ha ritenuto discriminatoria la legge austriaca che impediva alla partner di una coppia dello stesso sesso di adottare il figlio dell’altra, come invece era consentito a persone di sesso diverso legate in unioni di fatto.
Al di là dell’incidenza che dette decisioni possono avere in Italia – la prima notevole, la seconda assai meno, anche in considerazione delle differenze della legislazione austriaca e italiana su punti ritenuti rilevanti dalla Corte di Strasburgo – vi sono molte questioni tecniche relative a queste due decisioni che meritano approfondimenti e discussioni.
Ad esempio, potrebbe colpire che la prima decisione non sia stata resa neppure in forma scritta, così da non consentire neppure alcun suo vaglio critico, nonostante la sua delicatezza e l’importanza delle sue ricadute. Respingendo la richiesta del Governo italiano, infatti, tale decisione ha avuto l’effetto di rendere definitiva la sentenza precedente, di condanna dell’Italia. Si tratta di un fenomeno, ben noto agli avvocati che praticano Strasburgo, in base al quale la ricevibilità del ricorso, e quindi la stessa possibilità di ottenere una decisione sulla lesione di diritti fondamentali, è rimessa ad un immotivato e insindacabile giudizio della Corte stessa.
In relazione alla seconda decisione, meriterebbe un approfondimento il modo in cui la Corte, per fondare le sue sentenze, usi il grado di “consenso” formatosi su certi temi nelle legislazioni e nelle giurisdizioni degli Stati membri del Consiglio d’Europa. Si tratta poi di vedere più da vicino come Strasburgo riconosca, a seconda dei casi e a suo insindacabile giudizio, un più o meno ampio margine nazionale di apprezzamento ai Parlamenti nazionali, nel cui ambito le discipline dei singoli Stati possono tra loro differire senza ledere diritti fondamentali protetti dalla Convenzione.
Vi è da chiedersi quale consapevolezza vi sia in generale su questi argomenti e, in particolare, circa il fatto che sia stata ormai intrapresa una strada che vede le decisioni giurisdizionali della Corte sovranazionale pesantemente influenzate da questo consenso, salvo poi autoriconoscersi – come nel caso delle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso, dove tale grado di convergenza era basso – la possibilità di sminuirne l’importanza, secondo tecniche argomentative che si limitano spesso ad asserzioni non altrimenti giustificate.
Con grande approssimazione si può affermare che questa tendenza ad una giurisdizione consensuale (cioè basata sul consenso riscosso, nei vari Stati, dai diritti di cui si discute) e questo potere di selezionare, in modo sostanzialmente insindacabile, quali questioni meritino di essere decise e quali no, sono tutti elementi che avvicinano molto il “giudice” al “politico” – forse più di quanto si era abituati, soprattutto al di fuori dell’area culturale di common law – e, in assenza di meccanismi di responsabilizzazione, nel lungo termine ciò potrebbe addirittura portare, per una sorta di eterogenesi dei fini, ad influire negativamente sulla stessa autorevolezza della Corte di Strasburgo, attirando sulla stessa quell’avversione delle parti disputanti che caratterizza l’agone politico e che dovrebbe invece essere massimamente evitata per qualsiasi organo giurisdizionale, in quanto garante di diritti fondamentali che, come tali, dovrebbero essere sottratti alle altalenanti maggioranze parlamentari e alla eventuale tirannia di tali maggioranze.
Eppure vi sono, forse, questioni più urgenti che meritano di essere affrontate, questioni che devono essere affrontate prima che l’ideologia si impadronisca definitivamente delle dispute in atto, per trasformarle in uno scontro di forze che si negano alla ragione, e prima che l’una e l’altra parte si arrocchino ciascuna a difendere la propria fortezza, senza alcuna residua possibilità di ragionare insieme, per lasciare solo spazio ad accuse reciproche.
Come cattolici, infatti, occorre prima di tutto interrogarsi su cosa spinga tante persone a lottare e a chiedere il riconoscimento dei diritti sopra in discussione: quale frammento di realtà e di verità ci sta parlando attraverso la sofferenza reale di quelle persone che stanno reclamando nei nostri confronti? Evitare la sofferenza di chi amiamo, cercare di rendergli la vita migliore possibile, volere a tutti i costi assumere di fronte a tutti l’impegno di una promessa che, come dice H. Arendt, getta “nell’oceano dell’incertezza isole di sicurezza”, in cui l’amore fedele rende possibile la realizzazione di una spazio di accettazione e di condivisione, grazie al quale durare nel tempo, per aprirsi all’avvenire senza pretendere di eliminarlo, così da creare proprio quello spazio in cui poter crescere nuove vite.
Ebbene tutte queste cose corrispondono ad una esigenza che è propria dell’amore nella sua forma più alta ed è un valore, evidentemente, tanto inscritto nel cuore degli uomini da essere reclamato da chiunque. Non è, quindi, l’amore in sé un elemento di differenza reale tra la coppia dello stesso o di diverso sesso, né forse l’apertura procreativa, i cui delicati problemi etici si pongono anche per le coppie eterosessuali non fertili, come proprio le questioni sulla procreazione assistita stanno a testimoniare. Neppure la scienza può essere d’aiuto: nella stessa sentenza di Strasburgo si dà atto della divisione nella comunità scientifica in merito agli effetti sui minori del vivere in una coppia omosessuale, anziché in una coppia tradizionale. Lo stesso riferimento ai diritti del minore assomiglia troppo ad un artificio argomentativo, grazie al quale motivare a posteriori, ciascuno a modo suo, le conclusioni a cui già si è altrimenti pervenuti.
Se, invece, molto più semplicemente si guarda al cuore del fenomeno, ciò che emerge è proprio la presenza o l’assenza di una differenza, quella sessuale, una differenza che, come si sa, è ben più di quella fisica, coinvolgendo in realtà l’intera persona, probabilmente caratterizzata da tutta una gradazione di atteggiamenti, maschili o femminili, presenti entrambi, in misura minore o maggiore, sia nell’uomo, sia nella donna.
Ecco però che qui sembra emergere un dato di esperienza che chiunque abbia avuto la fortuna di aver sperimentato un matrimonio felice conosce perfettamente o, almeno, ha conosciuto, in qualche momento della sua vita matrimoniale: l’incredibile miracolo per il quale la persona a noi più intima ci è tanto più indispensabile, quanto più si afferma come l’“altro” rispetto a noi, quanto più manifesta quella sua insostituibile capacità di farci vedere le cose in modo diverso, con i suoi occhi, non i nostri, quegli occhi amorevoli ma intransigenti di chi ci ama più di noi stessi, senza però rinunciare a sé stesso e senza annullarsi in noi.
Come è stato detto, in questo gioco sempre vivo tra prossimità e lontananza si apre nella coppia uno spazio, quello spazio di diversità e di unione che si crea quando si guarda all’altro con la lontananza del rispetto e la prossimità della tenerezza propria di occhi d’amore. È in quello spazio che si instaura quel dialogo d’amore nella coppia, di cui si sente così forte la mancanza quando esso viene meno e che si presenta come insostituibile nella vita di ciascuno.
Credo che, se amare in una coppia vuol dire fare spazio all’“altro” in quanto “altro”, via sia allora un sottile legame tra differenza sessuale e “alterità” essenziale dell’amore coniugale, un legame, in qualche modo misterioso, che unisce l’uomo alla donna proprio in quanto così essenzialmente diversi, ma per questo così complementari da poter essere uniti, un legame misterioso da avvicinare con rispetto e senza l’arroganza di chi vuole imporre certezze definitive, ma un legame certamente sussistente, che andrebbe approfondito e discusso in tutte le sue implicazioni.
E allora, se deve esserci una strada per affrontare queste questioni anche nella dimensione pubblica, e una strada deve esserci e va trovata, forse tale strada è quella di testimoniare solo quello che conosciamo veramente con l’esperienza, vale a dire l’incomparabile bellezza del matrimonio d’amore tra un uomo e una donna.
Allora, forse, emergerà con naturalezza, bellezza e ragione, una differenza reale che evidenzi l’assenza di ogni discriminazione nel non poter equiparare il matrimonio ad una unione tra persone dello stesso sesso, senza che ciò significhi persecuzione od omofobia e senza per ciò evitare di poter continuare a serenamente discutere di strumenti di tutela di esigenze umane fondamentali, indipendenti dalla diversità sessuale.