Ho dovuto metabolizzare la cosa, lo ammetto. L’impatto è stato forte, anzi fortissimo. Eppure naturale. Straordinariamente naturale. E dire che era una prima volta, uno di quei cortocircuiti della Storia che eccitano gli animi più sensibili, svincolano la retorica e giustificano le metafore più ardite. Ci andrò giù piano, avverto. Anzi volerò molto basso, come il mio amico Giuseppe che a fine giornata mentre commentava con me l’evento mi ha detto: “sembrava la gara a chi arrivava secondo”. Poi l’ha messa giù bene, per un sito spuntato come un fungo nel delirio post-conclave, spiegando che era “per dare spazio e rilevanza all’altro”. Ma è l’immagine che conta. Si perché dell’ultimo fine settimana ecclesiale ci sono due cose da trattenere, la bella omelia di Francesco nella domenica delle Palme (anche qui confesso: l’aspettavo con una certa ansia dopo i primi discorsi istituzionali martellanti sulla terna povertà-dialogo-creato), e la doppia visione in bianco offerta dalla Chiesa di Ratzinger e Bergoglio. La chiesa dei due papi. E’ inutile girarci intorno. Era un problema, il vero problema, dopo quelle dimissioni improvvise e spiazzanti, i secoli di consuetudine a piangere un pontefice prima di farne un altro, l’abitudine ecclesiale triturata dalla libertà di Benedetto XVI.
Per giorni ci si è interrogati sul “per sempre”, cavillando sulle norme canoniche, sulla tradizione spazzata via dalla genialità del teologo tedesco, sull’interpretazione che il futuro pontefice avrebbe dato del fatto, senza smettere di esercitare l’immaginifica capacità italiota (nel caso specifico anche virulentemente contagiante) di ipotizzare complotti e strategie improbabili.
L’inedito spaventa si sa. E in molti hanno tentato di superare la paralisi dettata dall’ignoto o semplicemente dall’imprevedibile, buttandosi sui rapporti rilegati in rosso, i volumi di segreti da cappa e spada, i corvi e le spie, le analisi, in realtà ignote ai più, di tre simpatici vecchietti con la porpora, seri e sereni, ma lontanissimi dall’immagine di detective aggressivi e acuti consegnata da certe colonne nostrane. E poi lo Spirito Santo ci ha messo del suo. Ha buggerato tutti mandando il bel Francesco. E invece di arrendersi all’evidenza di una Chiesa governata direttamente dall’Alto, in molti sono caduti nella trappola di quel giovane diavolo apprendista di Malacoda, parente di Berlicche (a dimostrazione che anche ai piani inferiori i nepotismi abbondano), ispirato nel suggerire un antagonismo inesistente, una discontinuità teorica, una rottura provvidenziale del nuovo corso ecclesiale. Balle.
Gigantesche balle. O bolle. Come quelle di sapone che piacciono tanto ai bambini e che ieri si sono sciolte al sole primaverile, il sole che inondava il Castello sul lago. Il sole già. Quello che ancora una volta ha richiamato Benedetto XVI, mentre le braccia da immigrato di Francesco lo sostenevano nel primo bellissimo incontro all’eliporto. “Il sole ci saluta” ha sussurrato con un filo di voce. Ecco qualcuno parla del tempo quando non sa cosa dire, quando deve camuffare l’emozione o superare l’estraneità. Benedetto no, mai. Guarda il cielo perché la realtà, anche metereologica, per lui è sempre segno. Che siano gocce di pioggia o urticanti raggi solari, vento che scompiglia e gioca o freddo che punge, tutto per il papa emerito è dono. Ho imparato a memoria ogni parola, ogni gesto, ogni esitazione, sospiro, rumore o passo, dei tre minuti di immagini incredibili e svelanti fornite dal Centro Televisivo Vaticano.
E quella costatazione temporale è stata il preludio di un crescendo di commozione. Francesco che corre incontro a Benedetto, il settantaseienne quasi ragazzino di fronte alla fragilità canuta del vecchio pontefice, l’abbraccio, le mani che si cercano e non si staccano, i sorrisi che rivelano abissi di profondità. E poi quella parola sfuggita, Santità, dalle labbra di Bergolio, il riconoscimento di un ruolo, di un posto nel recinto di Pietro. E ancora stacco/interno giorno: i due che entrano nella cappella, prima il giovane e poi l’emerito con il bastone e il trapuntino per il gelo degli stanzoni apostolici.
Francesco che si muove con disinvoltura e guarda l’inginocchiatoio d’onore, stralunato, e Benedetto che lo rincorre, allunga il braccio, quasi raccogliendo tutte le forze, per dire “il Papa è il Papa”, a lui spetta il posto d’onore. L’hanno raccontato tutti, la spiegazione francescana del “siamo fratelli, preghiamo insieme”, la decisione di mettersi uno accanto all’altro… ma niente può oscurare quella devozione senile per il nuovo pontefice, lo slancio di Joseph, bambino come solo i vecchi sanno essere, umile come non mai, che si sottomette diventando figlio, lui che per tutti è stato Padre. Niente di più bello. Neanche quei visi rapiti dall’intimità con Dio. Neanche le vesti bianche accostate. Neanche l’aria da paradiso sul volto trasfigurato del vecchio Papa e il sorriso lieto di Francesco. Neanche la tenerezza del dono mariano, l’icona dell’umiltà, il candore infantile con cui Benedetto ha cercato le mani del nuovo Papa per ringraziarlo. Niente di più bello di quella corsa ad essere secondi. Niente di più bello per spiegare la comunione ecclesiale. Niente di più bello. E pensare che c’è ancora chi ha pensato di concentrarsi su altro. E persino su un dettaglio. Una scatola bianca su un tavolino, coperta da una busta, nello studio dove hanno parlato i due Papi per 45 minuti. E’ come quando c’è la luna e si guarda il dito che la indica. Un altro di quei consigli strampalati di Malacoda.