Dieci anni fa non sapeva neanche chi fosse, e non l’ha neanche mai conosciuto di persona. Ma quando ne parla, non può evitare la commozione per un uomo giusto, per un cristiano che ha incarnato la fede nella quotidianità del suo lavoro di medico. Protagonisti di questa storia sono Carlo Urbani – medico italiano, epidemiologo, una vita in giro per il mondo – e Lucia Bellaspiga, giornalista di Avvenire. Si sono incontrati il 29 marzo 2003. Meglio, le loro vite si sono intrecciate quel giorno, quando arriva nelle redazioni di tutto il mondo la notizia che a Bangkok un medico italiano è morto per la Sars, la tremenda pandemia che dieci anni fa ci tenne con il fiato sospeso, in balìa dell’impotenza vissuta dai nostri avi durante le devastanti epidemie dei secoli scorsi. Ad un tratto, nei presunti asettici paesi sviluppati, paradossalmente proprio grazie allo sviluppo e ai veloci viaggi aerei, si propaga a velocità impressionante questa nuova malattia, una polmonite fulminante, la Sars, rapida sigla che sintetizza la Severe Acute Respiratory Syndrome.



La memoria è corta, però. Ora che l’emergenza è rientrata, pochi si ricordano di quei giorni…
Infatti. Quando parlo di Urbani, devo sempre fare una premessa, spiegare, far riemergere i ricordi. Ma come, non vi ricordate che alle casse del supermercato vendevano le mascherine protettive, che ci dicevano che i luoghi affollati erano focolai di contagio, addirittura di non andare a Messa, che potevamo benissimo ascoltarla per televisione? Dei controlli sanitari e delle quarantene negli aeroporti? Era una malattia nuova, era arrivata nei Paesi ricchi, si aveva paura. Perché si moriva.



In questo clima di allarme, diciamo pure di panico da parte di taluni, cosa succede quel 29 marzo di dieci anni fa?
Nelle redazioni arriva la notizia che è morto un italiano. Dove? Chi è? Cerchiamo di saperne di più e, un dato alla volta, la notizia prende corpo. È morto a Bangkok (sollievo, è lontano), è un medico, viveva in Vietnam, ad Hanoi. Cosa ci fa un medico italiano ad Hanoi? È responsabile, per conto dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della Sanità, del coordinamento della prevenzione e del controllo della diffusione delle malattie parassitarie nella zona del Pacifico Orientale. Ma non basta: è lui che ad Hanoi ha riconosciuto nei sintomi di quella atipica polmonite contratta da un uomo d’affari americano di ritorno dalla Cina, una nuova, aggressiva malattia. Che ha lanciato l’allarme, mettendo la quarantena e circoscrivendo il contagio. Che italiano, pensiamo, e qui in Italia è un perfetto sconosciuto. E poi salta fuori che è stato lui, allora presidente di Medici senza Frontiere Italia, a ritirare nel 1999 il Premio Nobel per la pace attribuito all’organizzazione internazionale.



Facendo la giornalista lei ha raccontato tante storie straordinarie. Cosa rende Carlo Urbani così diverso?
All’inizio è stata una cosa inconsapevole. Poi ho cominciato a parlare con chi lo conosceva, con la moglie, la madre, gli amici. A raccogliere ogni ritaglio che parlava di lui. Un giorno ricevo una telefonata, è la casa editrice Àncora, mi chiede se me la sento di scrivere un libro su di lui. Io, che non avevo mai scritto un libro, guardo la cartelletta di ritagli che per puro caso avevo in mano, e dico di sì. Così è nato “Carlo Urbani. Il primo medico contro la Sars”.

Ma non può essere speciale per questo…

Certo che no, ma così ho avuto modo di approfondire ancora di più la sua conoscenza. Per scrivere la sua biografia ho letto tutte le lunghe, profonde lettere/reportage che inviava agli amici, a Medici senza Frontiere, ai Missionari della Consolata di Torino. Sono tantissime. E poi i suoi diari da ragazzo, i suoi temi. Aveva le idee chiare fin da piccolo. Voleva aiutare i sofferenti, chi non aveva mai visto un medico o chi non se lo poteva permettere. Un episodio su tutti: quando si laureò, riempi numerosi zaini di farmaci, e organizzò un viaggio in Africa in compagnia, un vero “tranello” ai suoi amici. Nel bel mezzo della vacanza li portò in villaggi sperduti, dove non era mai passato un medico: una lezione di vita per tutti perché, come lui diceva “dobbiamo ritrovare la nostra vera missione di medici, che è quella di ascoltare, di chinarci sul malato. Dobbiamo tornare a toccarlo, a mettere il nostro orecchio su suo petto”. Il suo ideale era Giuseppe Moscati, il medico santo di Napoli.

 

Si può dire dunque che ha preso in carico la sua eredità?
Sì, perché Carlo è stato un medico e un cristiano, un eroe della quotidianità. Non è un santo perché è morto di Sars – quella è stata una pietra d’inciampo – ma per come ha vissuto i suoi 47 anni di vita. Non era uno scriteriato, non ha mai messo la sua vita in pericolo sventatamente. Ma rimaneva dove c’era bisogno di lui. Alla moglie Giuliana, che quando ad Hanoi si capisce la gravità della Sars, gli chiede: “scappiamo?”, lui risponde: “Se di fronte all’epidemia l’infettivologo scappa, che ci sono venuto a fare qui?”.

 

Sì, ma aveva tre bambini piccoli.
Lui adorava la famiglia, ed era un uomo come tutti, che ha avuto anche paura, tanta paura. Quando ha capito che stava morendo, ha ingiunto alla moglie di prendere i bambini e andarsene. I bambini – il più grande aveva 14 anni, la più piccola 2 – se ne sono tornati in Italia da soli. Giuliana è rimasta per accompagnarlo nei suoi ultimi, tremendi 18 giorni. Ma era la fede a guidare il suo “bisturi”, a dargli la ragione del suo essere il medico. Come ultimo atto chiese di confessarsi e ricevere l’unzione degli infermi: cosa non facile visto che si trovava in Thailandia. Ma in città trovarono un sacerdote italiano, un missionario del Pime, padre Piergiacomo che di cognome – guarda il caso – fa anche lui Urbani. Le ultime parole che gli sussurrò furono “i miei figli”.

 

Cosa rimane oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, dell’eredità di Carlo Urbani?
E’ un faro che indica la rotta. In questi giorni in Vietnam, a Taiwan, in Thailandia fioriscono le iniziative ufficiali in ricordo di Carlo, si intitolano ospedali, i governi consegneranno direttamente nelle mani del figlio Tommaso ingenti contributi per sostenere le attività dell’Aicu, l’Associazione italiana Carlo Urbani che prosegue la straordinaria attività umanitaria del medico marchigiano. “L’uomo giusto al posto giusto. Non sapremo mai quante persone sono vive grazie a lui”, ha scritto Kofi Annan ricordandolo. Solo qui in Italia questo decennale è caduto nell’oblio ufficiale. Le uniche iniziative in cantiere sono quelli organizzate proprio dall’Aicu e da chi continua la sua opera: una nelle Marche, che potrebbe essere ospitata nelle stupende Grotte di Frasassi, e l’altra, già fissata per fine ottobre, all’Università Statale di Milano. Si articolerà in un convegno scientifico internazionale con la partecipazione di oltre mille infettivologi e in uno spettacolo con brani delle lettere di Carlo, lette da Ugo Pagliai accompagnato dalla superba voce di Antonella Ruggero. 

 

(Daniela Romanello)