Ora tutto tace ed è fermo. Dopo che l’elicottero ha accompagnato Benedetto XVI lontano dalla residenza vaticana, si è consumato anche simbolicamente, nelle tenui tinte di uno struggente tramonto romano, il distacco del Papa dalla sua Chiesa. Chiusi i portoni dei sacri palazzi, Roma è divenuta sede vacante. La cristianità è in attesa.



In questa prima domenica senza la consueta recita dell’Angelus da piazza San Pietro, il silenzio è stato ancora più insolito e assordante. Eppure, non era un silenzio attonito o rassegnato. Nella drammaticità che lo caratterizza, esso è colmo dell’emozione, della commozione e della gratitudine provocate da quanto visto e udito nelle ultime settimane; al contempo, esso è carico di speranza per il futuro della Chiesa, la quale resta il luogo della salvezza di ciascun fedele.



Un silenzio, dunque, anzitutto grato per le parole di consolazione e per i gesti di tenerezza offerti dal Papa a tutti i fedeli, accorsi fisicamente o anche solo mediaticamente a salutarlo per l’ultima volta. Viene in mente quella famosa corale di Bach, nella quale il compositore, commentando alcune delle ultime parole di Gesù sulla croce (“donna, ecco tuo figlio; figlio, ecco tua madre”), fa esplodere il coro in un intenso ringraziamento: “di tutto Egli si prese cura sino alla fine”. Ed effettivamente è stato così anche per Benedetto XVI. 

Egli non si è limitato a comunicare alla Chiesa le ragioni delle proprie dimissioni, quasi avesse realizzato un gesto nobile, necessitato e, tuttavia, estraneo e indifferente alle sorti dei semplici fedeli. Per contro, pur cessando dal ruolo di romano Pontefice, egli ha mantenuto (e manterrà) quella paternità che gli proviene dall’essere il successore di Pietro (“Ogni giorno ho portato ciascuno di voi nella mia preghiera, con il cuore di padre”). Dalla paternità non si può abdicare, come del resto è esperienza di ciascun padre ed è consapevolezza di ciascun figlio. Egli è rimasto padre. E da padre ha impedito ai suoi di perdersi nello sgomento dell’abbandono; li ha rassicurati e li ha accompagnati per mano alla comprensione razionale e affettiva della sua decisione estrema. Ha unito la solennità delle parole alla tenerezza del comportamento, in modo da far percepire loro anche fisicamente il permanere della sua paternità verso tutti. Nell’ultimo saluto dal balcone di Castel Gandolfo più volte ha allargato le braccia in un ideale abbraccio con tutta la comunità, ringraziando e augurando infine buona notte, proprio come fa il papà con i suoi bambini (“Grazie, buona notte!”).



Consentendo a tutti di avvicinarsi alla sua umanità e di scoprire i suoi tratti umani, Benedetto XVI ha reso a ciascuno più facile guardare al Mistero con il medesimo sguardo impiegato da lui. Come un bambino scopre la realtà con gli occhi del padre, così ciascun fedele ha potuto considerare la drammaticità dell’esistenza propria e della storia, muovendo dal medesimo angolo visuale. 

Avendo presente il suo corpo vecchio e stanco, è divenuto più agevole e immediato per ciascuno comprendere da dove egli traesse forza e gioia. Del resto, si tratta di una prospettiva di sguardo che ha contrassegnato l’intero Pontificato: da quando, eletto Papa, si è presentato al mondo come “un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”; a quando, dismesso quel ministero, è tornato a essere “semplicemente un pellegrino, che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra”. 

E così, se nelle prime parole rivolte dal balcone di San Pietro ai fedeli Benedetto XVI confidò di fare affidamento nell’aiuto “permanente” di Gesù, analogamente ha concluso nell’ultima udienza. In questa ha augurato che “nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore”.

Il silenzio di questi giorni, tuttavia, non è solo colmo di gratitudine per quanto accaduto. È anche carico di speranza per il futuro della Chiesa. Nell’esperienza cristiana il sentimento della speranza non si esaurisce nella vaga aspettativa di un bene desiderato; più che muovere dall’eventualità del futuro, esso muove dalla certezza del presente. È in nome di una certezza presente, che si può essere certi del futuro. Spiegava Luigi Giussani a proposito della Chiesa, che la speranza è riconoscere con certezza un futuro, che nasce da una storia che è incominciata duemila anni fa (“La speranza come certezza in una cosa futura poggia su tutto il passato cristiano, poggia su tutta la memoria cristiana, poggia su tutta la certezza di quella Presenza che è incominciata duemila anni fa ed è arrivata fino a te. La certezza della presenza di Cristo è la certezza di una cosa che è incominciata duemila anni fa”).

Il distacco cui Benedetto XVI ha condotto per mano i suoi, non è stato disperato perché mosso da una simile certezza e, dunque, da una simile speranza: “ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua e non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare”.

E così, l’attesa del silenzio di questi giorni può sciogliersi nella speranza del compimento di ciascuno: “Vorrei invitare tutti […] ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano”.

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