Le vite delle sante Perpetua e Felicita sono strettamente legate, ma ancora di più lo sono il loro martirio e la morte, avvenuta il 7 marzo 203. La loro storia è raccolta nel diario di Tibia Perpetua, una nobildonna ventiduenne, madre di un piccolo bambino, rinchiusa con Felicita e tre uomini di nome Saturnino, Revocato e Secondulo, in un carcere di Cartagine, tutti condannati a morte con l’accusa di volersi fare cristiani. Legate nel martirio e nella condanna a morte, le due giovani donne furono entrambe vittime delle persecuzioni dell’imperatore Settimio Severo che regnò fino alla sua morte avvenuta nel 211, dopo ben 18 anni sul trono. Mandato in Africa del Nord, e più precisamente a Cartagine, a perseguitare tutti coloro che volevano convertirsi alla fede cristiana e coloro che più pericolosamente la professavano, l’imperatore fece catturare e imprigionare, tra gli altri, anche una donna di nobili natali come Perpetua, colta matrona, senza badare al suo censo.



Secondo un editto emanato nel 202, infatti, veniva proibito a tutti i cittadini dell’impero di diventare cristiani, e chiunque avesse disobbedito sarebbe stato soggetto a pene severissime. Non fece eccezione la martire Perpetua, che trascinò con sé Felicita, la giovanissima figlia dei suoi servi in avanzato stato di gravidanza, annotando puntualmente in un diario redatto in latino ogni momento di quella atroce prigionia: le celle sovraffollate, il caldo che levava il fiato e dava il tormento.



Perpetua nacque da padre pagano e madre cristiana, anche due dei suoi fratelli lo erano, e a nulla valsero i tentativi del padre di indurre i suoi figlioli a rinnegare la fede: anche dopo il loro arresto e in vista della terribile esecuzione che li attendeva, Perpetua e i suoi non cedettero mai alla tentazione di salvarsi attraverso l’apostasia. Eppure, a leggere le pagine tremende che la santa ha lasciato, la prigionia deve essere stata veramente un’esperienza terribile. Ma Perpetua non si preoccupava solo per sé, ma anche per la salute del suo bambino, che la donna ancora allattava e le cui pene riuscì lievemente ad alleviare corrompendo un carceriere, che consentì alla santa di tenere con sé il figlio in cella, così da poterlo nutrire personalmente.



Durante la dura prigionia Perpetua ricevette anche la visita della madre e dei suoi fratelli catecumeni, oltre ad avere una visione in cui pascolava un gregge. Quella visione suggerì alla santa di essere vicina al martirio, al quale non rinunciò neanche di fronte alle preghiere del padre di rinnegare la sua fede cristiana, facendo dei sacrifici agli dei pagani. Durante l’esecuzione dei suoi compagni di cella, che furono sbranati dalle belve feroci, Perpetua ebbe un’altra visione e capì di essere pronta per lottare contro il diavolo.

Al martirio sperava di sottrarsi Felicita, visto che la legge vietava di condannare a morte le donne incinte, ma, il destino volle che la povera serva partorì all’ottavo mese di gravidanza, a due giorni dalla presunta esecuzione. La bimba appena nata venne data in affidamento a una donna cristiana e Felicita, Perpetua e gli altri catecumeni furono condannati a regolare esecuzione: approfittando di uno spettacolo castrense organizzato per festeggiare il compleanno del figlio dell’imperatore, il 7 marzo 203. I martiri, condotti nell’anfiteatro e acclamati dalla folla urlante furono prima frustati e poi sbranati da animali.

Per via della loro straziante, dolorosissima storia, il culto delle due martiri ha iniziato ad avere larga diffusione già subito dopo la loro morte. Invocate anche al di fuori dei confini africani, vengono festeggiate e ricordate il 7 marzo, data del loro martirio. Sono altresì invocate durante la veglia pasquale della Chiesa Cattolica. Dal 1807 le reliquie di Perpetua sono conservate presso la chiesa di Notre Dame di Vierzon (città di cui la nobildonna è patrona) dopo esservi state traslate in seguito a insistenti richieste degli abitanti della cittadina francese: nel 1632 una terribile epidemia di peste colpì la città e gli abitanti si rivolsero alla santa, pregandola affinché la diffusione del morbo cessasse, e in cambio si impegnarono a incastonare la sua testa in un reliquiario d’argento.