Robert Edwards, pioniere della fecondazione in vitro e premio Nobel per la medicina, è morto all’età di 87 anni. A darne notizie è stata l’Università di Cambridge, dove ha lavorato: “Si è spento nel sonno dopo una lunga malattia”, si legge nel comunicato dell’ateneo. Nato a Manchester il 27 settembre 1925, Edwards si laureò in biologia e per lungo tempo si dedicò allo studio della fecondazione e della diagnosi preimpianto.
Fin dagli anni 50 ha considerato la fecondazione artificiale come una strada possibile per combattere la sterilità. Nel 1965 entrò a far parte della Società eugenetica britannica e solo tre anni dopo iniziò a collaborare con il ginecologo Steptoe. Un incontro importante per Edwars, che collaborando con Steptoe riuscì a realizzare il suo sogno: far nascere un bimbo in provetta. Era il 1968 quando Edwards riuscì per la prima volta a fecondare un ovulo umano al di fuori del corpo di una donna, unendolo a uno spermatozoo in provetta. Fu solo dopo 10 anni che nacque una bambina, Louise Brown, la prima di una lunga serie. Da allora infatti nacquero oltre 4 milioni di bambini “in provetta”.
Un parere su chi è stato e che cosa ha lasciato alla ricerca e alla medicina Robert Edwards, arriva dal professor Roberto Colombo, Università Cattolica di Roma, direttore del Centro per lo Studio delle Malattie Ereditarie Rare presso l’Ospedale Niguarda di Milano, intervistato da ilsussidiario.net.
Chi è stato Robert Edwards per la medicina?
La risposta a questa domanda può essere trovata in forma sintetica nella motivazione con la quale la Nobel Foundation di Stoccolma gli ha assegnato il premio 2010 per la medicina: “Per lo sviluppo della fertilizzazione in vitro”. Il biologo di Cambridge non ha “inventato” la fecondazione in provetta – come popolarmente viene chiamata questa tecnica embriologica – ma ha sperimentato, sviluppato e applicato una procedura nota, già utilizzata sull’animale, anche all’uomo. Già negli anni 50 del XX secolo la fecondazione extracorporea era stata ottenuta con successo in alcuni mammiferi.
Per esempio, nel 1959 il dottor Min Chang della Worcester Foundation (Usa) ottenne la nascita di un coniglio attraverso la fertilizzazione di un ovocita in laboratorio ed il trasferimento dell’embrione in utero.
In Australia, nel 1973, un gruppo di medici e ricercatori della Monash University (Melbourne) aveva già tentato di applicare la fertilizzazione in vitro ad una donna, ma la gravidanza si era interrotta dopo pochi giorni. Il professor Edwards, in collaborazione con il ginecologo Patrick Steptoe, riuscì, con questa tecnica, a far nascere a Manchester una bambina, Louise Brown, il 25 luglio 1978.
Com’è riuscito a dar vita alla fecondazione in vitro?
Due furono i principali fattori del successo di Robert Edwards laddove altri avevano incontrato difficoltà nell’applicare la fertilizzazione in vitro alla specie umana. Il primo nasce dai suoi studi sulla maturazione in vitro delle cellule uovo e sulla selezione di quelle idonee per essere fertilizzate. Il secondo deriva dalla messa a punto di condizioni in vitro per ottenere la “capacitazione” degli spermatozoi, un processo, questo, che è decisivo per far acquisire al gamete maschile la capacità di attraversare la membrana di rivestimento dell’ovocita (“zona pellucida”) e che avviene, naturalmente, solo dopo il coito, durante la risalita delle vie genitali femminili.
Che giudizio ha dal punto di vista etico delle scoperte di Edwards?
Anzitutto occorre ricordare come nel corso dei numerosi tentativi di fertilizzazione in vitro e di trasferimento in utero che sono stati necessari per mettere a punto la metodica, e della fase di sperimentazione e miglioramento della medesima – fase che è durata per decenni in numerosi centri, soprattutto europei, americani e australiani – sono morti un numero incalcolabile ma grandissimo di embrioni umani (dell’ordine delle decine di migliaia). Si tratta di un fatto gravissimo per la moralità della medicina e della ricerca scientifica, che getta un’ombra incancellabile sulla storia degli studi che hanno condotto allo sviluppo della fecondazione in vitro umana.
Quindi il sacrificio, in cambio della ricerca, le è sembrato troppo alto?
Non troppo alto, inaccettabile, anche se fosse stato di un solo embrione sacrificato, perché l’embrione costituisce l’inizio della vita umana. A maggior ragione il numero è troppo alto. Capisco la sua argomentazione. Ma credo che rispetto all’obiettivo la posta in gioco era troppo elevata. Non si può mai fare un paragone quantitativo tra l’obiettivo di una ricerca e la dignità e la vita della persona umana.
Il suo giudizio in generale qual è?
Quanto alla strada biotecnologica e clinica che il lavoro di Edwards ha aperto, la possibilità della produzione e manipolazione in laboratorio dell’essere umano all’inizio del suo sviluppo ha pesanti implicazioni etiche non solo nell’ambito del trattamento clinico della infertilità, ma anche in quello della ricerca sperimentale sull’embrione e negli studi sulla terapia cellulare che fanno ricorso alle staminali embrionali.
Da quando è diventato possibile in moltissimi centri (perché relativamente facile e poco costoso) ottenere embrioni umani, il concepito è diventato “oggetto” di “tentazioni biotecnologiche” che – laddove non è stato posto un preciso e deciso limite da parte dei comitati scientifici ed etici e della legislazione nazionale – hanno portato e continuano a portare ad abusi perpetrati sull’essere umano in sviluppo che sono deprecabili sotto ogni profilo.
La Chiesa è contraria in tutti i casi alla fecondazione in vitro o ci sono differenze?
Il magistero della Chiesa cattolica è intervenuto sui questa delicata materia morale già nel 1987 con la Istruzione Donumn vitae della Congregazione per la Dottrina della Fede, un giudizio successivamente confermato da autorevoli interventi e testi dei pontefici e dei dicasteri romani.
A motivo della intenzionale dissociazione dell’atto generativo personale dall’atto d’amore dei coniugi – che riduce la procreazione umana a mera manipolazione tecnologica del processo di fecondazione e la strumentalizza – e in ragione dell’inaccettabile rischio per la vita e l’integrità cui viene esposto l’embrione umano fin dai primissimi stati del suo sviluppo, che viola la dignità e i diritti dell’essere umano in qualunque condizione si trovi, la fecondazione in vitro umana non si configura mai come un’azione moralmente buona, e dunque non può essere perseguita da una coscienza retta illuminata dalla fede.
Con Papa Francesco secondo lei potrebbe cambiare, in questo senso, la posizione della Chiesa?
Non dico nulla perché non posso anticipare nessuno. Io penso di no. La dottrina è stata già confermata da due pontefici e non penso ci siano dei cambiamenti in tal senso, ma preferisco non dire nulla. Mi sorprenderebbe, ma penso che la posizione rimanga quella.
Che cosa ha rappresentato per lei come ricercatore biomedico la nascita di Louise Brown?
Lo sviluppo di una nuova procedura biotecnologica che, al pari di altre, ha contribuito a modificare il modo con cui oggi si fa ricerca nel campo della biologia della riproduzione e dell’embriologia umana. Una metodica sicuramente innovativa nel campo della medicina della riproduzione, ma non la sola che oggi viene utilizzata per aiutare le coppie infertili o subfertili ad avere un figlio.
E come uomo di fede?
Come ogni venuta al mondo di una nuova persona, non posso che riconoscere in questa nascita la presenza dell’unico vivente creato ad immagine e somiglianza di Dio, come dice il libro della Genesi. A tutti i bambini, comunque concepiti, si deve il rispetto incondizionato (anzi, di più, l’amore!) che nutriamo per ogni uomo ed ogni donna. Questo non modifica il giudizio del credente, e anche del non credente attento alla dignità della persona e ai suoi diritti, nei confronti della fecondazione in vitro e delle sue conseguenze sulla vita umana e l’amore coniugale.
(Elena Pescucci)