La locuzione “franco tiratore” nacque in ambito militaresco e ha da sempre indicato quei soldati che non seguono le indicazioni che arrivano dall’alto del loro schieramento ma decidono di fare di testa loro. Queste due paroline, prese in prestito dal lessico politico, hanno influito – ieri come mai in precedenza nella storia nella Repubblica italiana – nella bagarre che ha colpito le elezioni del Capo dello Stato, causando lo sfascio del Partito Democratico – con le dimissioni di Pier Luigi Bersani e Rosy Bindi – e le urla sguaiate di Beppe Grillo che ha esultato: “Li stiamo mandando a casa”. Già, perché le indicazioni del PD erano di votare Romano Prodi ma, al quarto scrutinio, il professore ha raccolto solo 395 voti, molti meno di quelli previsti: “1 elettore su 4 ha tradito”, ha detto sconsolato Bersani, che – calcolatrice alla mano, ha stimato che i “franchi tiratori” – quelli che, appunto, hanno deciso di fare di testa loro, non seguendo le direttive – fossero ben 101. Un numero esorbitante di per sé e tra i più alti di quelli che, anche in passato fecero vittime illustri, impedendo loro l’ascesa al Colle. I maggior numero di “impallinati” fu di candidati della Democrazia Cristiana, come il celebre Amintore Fanfani, già presidente del Consiglio per sei volte, che nel ’71 fu fatto fuori dai suoi stessi compagni, fermandosi a quota 384 voti, nove in meno di quelli necessari per vincere. Ma il record tutt’ora insuperato è quello delle elezioni del ’92, quando la corsa al Quirinale durò la bellezza di 16 scrutinii. La DC, dopo aver fatto fallire la candidatura di De Giuseppe, lanciò quella di Arnaldo Forlani, abbattuto dai fedeli di Giulio Andreotti che protestavano per il divieto alla candidatura del loro leader. Il socialista Giuliano Vassali fu, al 14esimo scrutino, vittima dei suoi, con 157 “tiratori”, numero-guinness di traditori fino ad ora imbattuto, cui è secondo Franco Marini con i suoi 151.