In questi giorni mi trovo a Buenos Aires per un simposio di quattro giorni su “Il lavoro nel carcere e la recidiva” a cura dell’Unione europea. L’iniziativa rientra nel progetto EUROsociAL, un programma per la promozione della coesione sociale in America Latina. Sono presenti rappresentanti di tredici paesi latinoamericani, Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Panama, El Salvador, Nicaragua, Perù, Messico e Uruguay, oltre a Italia, Germania, Francia e Spagna. Ma vengono riferite esperienze di tutto il mondo, dalla Cina alla Russia, dalla Norvegia all’Irlanda del Nord, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna.
Il dato che emerge a livello mondiale in modo inequivocabile è uno solo: il fallimento globale del sistema carcere. La recidiva, che oscilla tra il 70 e il 90 per cento, è una costante in tutti gli Stati. Costi incontrollati, insicurezza sociale, incremento della popolazione detenuta sono comuni a tutti i continenti. Il Brasile è passato in dieci anni da 236mila a 550mila detenuti. Gli Usa, con due milioni 200mila detenuti, in vent’anni hanno visto crescere del 570 per cento la popolazione detenuta. Poi ci sono le situazioni locali. In alcuni Stati sono più sentiti i problemi della carcerazione femminile e dei figli delle donne detenute. In altri l’età media dei reclusi non supera i 30/35 anni. Molti delegati lamentano la corruzione tanto della politica quanto della polizia penitenziaria.
In questo quadro desolante brillano alcune esperienze. Ad esempio quella delle Apac in Brasile nello Stato del Minas Gerais. Si tratta di circuiti differenziati in strutture integrative del sistema penitenziario brasiliano dove la recidiva scende all’8,5 per cento. In queste strutture gestite da civili e da volontari, ma sotto la costante vigilanza dei giudici del tribunale di competenza, non è presente la polizia penitenziaria e il detenuto è chiamato “recuperando”. Sono presenti al simposium anche i rappresentanti della Fondazione Avsi Brasile che fornisce alle Apac assistenza tecnica attraverso un programma del dipartimento dei Diritti umani della stessa Unione europea. Anche in Cile ci sono esperienze analoghe come i Cet (centri di educazione e lavoro). Grande anche l’attenzione per il sistema delle imprese sociali italiane rappresentato dal consorzio sociale Giotto.
Il mio intervento riguarda proprio il tema “Il lavoro come pilastro del reinserimento, della redenzione del detenuto, il caso Giotto”. Riporto prima di tutto il saluto del capo dell’Amministrazione penitenziaria italiana Giovanni Tamburino e poi racconto l’esperienza della cooperativa Giotto e di tutte quelle cooperative sociali che da Padova a Milano (in particolare nel carcere di Bollate), da Torino a Roma, dalla Sardegna alla Sicilia danno da lavorare a circa 2.200 detenuti con una recidiva che arriva a toccare punte dell’1-2 per cento. Un’esperienza che incuriosisce molti. Il Brasile chiede di far partire un progetto pilota per integrare il modello Apac con il modello Giotto/Italia. La medesima richiesta viene dalla Bolivia, dal Cile e dall’Ecuador. Un interscambio dal punto di vista giuridico è giudicato necessario da parte di tutti.
Grande curiosità anche per la Catalogna con il suo sistema Cire. Si tratta di un’impresa pubblica del dipartimento di Giustizia per reinserire i detenuti al lavoro. Ci siamo dati appuntamento per visite e approfondimenti reciproci.
Cosa ci attende nei prossimi anni? Le conclusioni e le linee guida di quasi tutti i paesi puntano molto sulle attività produttive. Si ipotizza un modello che rinnovi le attività esistenti e ne avvii di nuove. Un grosso problema è la commercializzazione dei prodotti del carcere. Ormai è chiaro a tutti che il lavoro assistenzialistico o mirato alla mera occupazione non serve a nulla. Occorre portare dietro le sbarre attività lavorative che operino secondo le regole di mercato e siano in grado di competere con il mercato esterno. Produrre solo per il mercato interno al carcere non produce nessun effetto positivo.
Forte anche la richiesta di un coinvolgimento delle imprese esterne. Molti hanno chiesto di favorire al massimo il coordinamento tra le amministrazioni penitenziarie e le imprese produttive. Molti chiedono iniziative di formazione degli operatori penitenziari in materia di lavoro, così come la creazione di una rete interistituzionale e internazionale. Il simposium si è chiuso giovedì pomeriggio (la notte in Italia) con la visita ad un carcere federale di poco meno di 2mila detenuti ed un carcere per detenute madri assieme ai figli sotto i 4 anni. Non descrivo la tenerezza nel vedere questi bambini. Anche questo un problema comune a quasi tutti i Paesi, compreso il nostro.
Una piccola nota sul contesto. Essere alloggiato a tre minuti a piedi dal luogo in cui per anni ha vissuto e operato il cardinale Jorge Mario Bergoglio è stata un’occasione per capire un po’ di più questo papa. Al mattino passavo nella cattedrale per una preghiera e ho visto sul sagrato, al riparo dalle intemperie notturne, alcuni “barboni”, in un caso c’era una famiglia intera, papà, mamma e bambino che dormivano tra coperte e cartoni. Mi hanno provocato un disagio minore di quelli che a volte incontro in stazione a Padova. Soprattutto lo sguardo dei passanti era meno indifferente, più umano, si capiva che era stato educato, che probabilmente avevano visto un esempio di accoglienza di queste persone.
In questi giorni di Buenos Aires ho visto ben poco, senza volerlo l’ultima sera mi sono trovato in mezzo ad una manifestazione pacifica di popolo (forse un paio di milioni) che gridava libertà. Uno striscione su tutti recitava: “Abbiamo un Papa argentino, vogliamo un governo argentino”. L’impressione generale è di un paese bello, ricchissimo di potenzialità e con una sola necessità: essere guidato bene. Come l’Italia.