Come ti ho fatto, ti disfo.

Una delle frasi che ogni tanto girano per casa, distrattamente e senza che per fortuna si verifichi un passaggio all’atto. Una delle frasi dal contenuto terribile che a volte diventa una terribile realtà: il figlio-oggetto, un prodotto, un effetto personale. Menzogna su menzogna: un figlio non è mai un oggetto e tantomeno personale, visto che lo si procrea in due.



A Bergamo una madre di 36 anni è stata trovata morta nel suo letto con accanto la bambina uccisa di un anno e mezzo. Un altro caso di omicidio-suicidio, pare. Una donna sfatta nel pensiero che ha letteralmente disfatto anche la figlia, nel suo corpicino. Ma in cosa era sfatto il pensiero di quella donna?

Lo era nel non considerare la figlia un soggetto, ossia nel non aver riconosciuto ciò che già era. Nell’istante, non in fieri, non quella che sarebbe stata. Quella piccola sapeva dare e ricevere soddisfazione, per come lo sviluppo neuromotorio era in grado di permetterle. Riconosceva e apprezzava una pappa buona, sorrideva e batteva le mani per ringraziare di una canzone, andava incontro coi piedini forse ancora incerti verso chi le tendeva le braccia e aveva iniziato a pronunciare i sì e i no, i nomi delle persone care e il suo proprio. Quella piccola aveva già iniziato a orientarsi nel reale, discriminando piacere e dispiacere, con una competenza già attuale. 



Trattarla da figlia, poi, avrebbe significato trattarla da erede, assicurarsi che al mondo ci stesse bene. Lei, di suo, aveva già cominciato a farlo, gli oggetti della casa erano già diventati suoi, fatti suoi grazie all’iniziativa personale: una sedia per tirarsi in piedi, un giornale da strappare con la carta per fare rumore, una luce da accendere e spegnere, il cappello del papà come copricapo sotto cui nascondersi e giocare, il cucchiaio per mangiare e suonare. Non bastava fosse biologicamente fatta, andava generata come erede quella bambina, bisognava solo renderle possibile di far fruttare le sue risorse in quel reale cui sarebbe stata sempre più introdotta.



Non riconoscerla come soggetto ha determinato poi il fatto che si estendesse su di lei l’ombra di un mondo senza futuro, in cui non valeva la pena di rimanere. Ti porto via con me, non ti lascio qui a soffrire da sola, ti risparmio ciò che sto passando io. Un’ombra maligna dove odio e amore si confondono, dove tutto si scontorna e perde fisionomia.

E invece qui ci sarebbe stata bene e questa non è una teoria o un’ipotesi, è una certezza. Una certezza basata su come aveva vissuto i suoi primi diciotto mesi: se non ci fosse stata bene non avrebbe iniziato a parlare, a gridare, a camminare, a leggere i libri senza ancora conoscere la lettura. Non avrebbe investito così tanto di suo.

E poi ci sarebbe stata bene anche senza quella mamma che l’aveva già favorita nel concederle di venire al mondo e che solo per questo sarebbe stata da onorare. Avrebbe trovato altri adulti che si sarebbero presi cura di lei, che lei avrebbe imparato ad amare per il bene che da loro sarebbe arrivato. E lei stessa, una volta grande avrebbe potuto diventare madre, raccontando ai suoi figli che i bambini sono forti, che ce la fanno anche quando la situazione è difficile. Come quelli delle favole che la fanno in barba agli orchi e alle streghe.

A noi che restiamo attoniti e un po’ sgomenti, resta da constatare come gli atti, anche i più inaccettabili e incomprensibili, siano sempre mossi dal pensiero. Il bivio è fra un pensiero che coltiva il rapporto, che favorisce l’altro come qualcuno da cui ricevere e sul cui lavoro si innesta il proprio per un profitto sì individuale, ma al contempo reciproco e un pensiero che cancella l’altro, che non lo vede più, che lo considera un oggetto da fare o disfare.

A noi resta la coltivazione quotidiana del pensiero più benefico. Quel pensiero che fa societas e rende il mondo un luogo bello da abitare.