Potessi farlo, gli scriverei subito questa breve lettera: “Caro commodoro, la tua bambina non è più braccata dal diavolo. E’ diventata una giovane donna, che si è laureata come hai sempre voluto, che si sta riscattando come hai sempre pensato e sperato”. Sono sicuro che Alberto Ballarin, dopo averla letta, si metterebbe a piangere di gioia e ritroverebbe la sua serenità perduta il 24 gennaio del 2004, quando fu arrestata Elisabetta, allora diciottenne, per quella terrificante vicenda che la vide coinvolta nell’inchiesta sulle “Bestie di Satana” e nell’omicidio di Mariangela Pezzotta.



Alberto Ballarin è stato un bravo giornalista sportivo, molto apprezzato, cresciuto nella cerchia di Gianni Brera, che gli aveva imposto il sopranome di “commodoro” per la passione della barca a vela. Alberto è stato stroncato dal dolore, è letteralmente morto di crepacuore il 26 agosto del 2005 per la tragica storia di sua figlia Elisabetta. Negli ultimi giorni della sua vita, Ballarin parlava con sua figlia e la guardava negli occhi con il solito amore e con un doloroso smarrimento. Cercava disperatamente una verità che non sapeva trovare. Elisabetta aveva ottenuto dei permessi dal carcere per andarlo a trovare in ospedale. E’ una storia di tale drammatica umanità che è difficile ricostruire e che viene in mente in questi giorni per il passo che Elisabetta ha fatto, chiedendo la grazia al presidente della Repubblica.



Elisabetta Ballarin è stata condannata a 22 anni di carcere e ne ha già passati nove in una cella di Verziano. Non è stata passiva e inattiva. Nell’autunno scorso si è laureata con 110 e lode in Didattica dell’arte e in un ulteriore biennio di specializzazione in grafica e comunicazione. Non si è fermata lì. Con altre due studentesse, si è aggiudicata una borsa di studio promossa dal Comune di Brescia con il progetto “Museo vivo”, finalizzato a creare itinerari didattici nel museo di Santa Giulia. Oggi dice: “Ho incontrato persone splendide, senza di loro non sarei riuscita ad arrivare dove sono arrivata”. Poi guarda con discrezione al suo futuro: “Mi piacerebbe continuare a lavorare nel mondo dell’arte, sarebbe un sogno, ma faccio del mio meglio, cerco di impegnarmi giorno dopo giorno, non guardo troppo in là…”.



Chi la segue e la osserva ha visto tutti i segni di una positiva trasformazione. Alberto Ballarin presentava sua figlia con un affetto commovente. Era come se volesse dimostrare che quella era la vera ragione della sua vita, la vera impresa che gli era riuscita. La sua vita era stata segnata da una grande passione per la sua professione, magari a discapito, come tanti personaggi della sua generazione, di una linearità di rapporti familiari e sentimentali.

Alberto conosceva bene se stesso ed era di una autoironia impagabile. Nascondeva visibilmente con il suo perenne buon umore, con le sue battute e i suoi scherzi, la nostalgia per una esistenza che avrebbe voluto più tranquilla e ordinata. Non poteva derogare però dall’affetto e dal rapporto con quella sua bambina, che spesso lo accompagnava persino nei ristoranti milanesi dove, dopo il pranzo, si giocava a “scopa”, con Gianni Brera, con la signora Erminia Moratti, con Gian Maria Gazzaniga e con tutta quell’umanità che popolava la grande Milano di un’altra epoca.

All’apparenza, per tanti anni, Alberto Ballarin sembrava non avere un’età precisa. Poteva a volte apparire come un ragazzo invecchiato o un vecchio giovanile. Quando arrivò alla ribalta della cronaca nera l’orrenda storia delle “Bestie di Satana”, Ballarin invecchiò realmente, di colpo, come travolto da un dolore lacerante. Il delitto in cui restò coinvolta sua figlia Elisabetta era stato consumato addirittura nel suo piccolo “rifugio” di Golasecca, uno chalet vicino al Lago Maggiore, a cui teneva moltissimo. Alberto deve aver vissuto tutta quella tragedia come una maligna beffa del suo destino.

E non ci voleva credere, continuava a porsi domande angosciose, quasi cercando di sfuggire da una realtà che gli appariva troppo crudele. Nei risvolti di questa cronaca frammentaria c’è proprio l’immagine di una tragedia nella tragedia. A cui non ci si riesce ad arrendere se non si considera invece, realisticamente, che il male convive con noi, che esiste proprio una “banalità del male” a cui non ci si deve arrendere, sapendo che il rischio è solamente dietro l’angolo di qualsiasi momento della vita.

Ci permettiamo di dire che, per chi è stato amico di Alberto, la domanda di grazia di Elisabetta, il suo impegno di studio, il suo difficile percorso di recupero appare come una speranza dopo una lunga “stagione tormentata”. Non ci permettiamo affatto di entrare nel merito. Diciamo solo che il tentativo che Elisabetta sta facendo è già un fatto positivo, è una fiammella di speranza. E’ per questa ragione che possiamo aggiungere qualche riga alla impossibile lettera da scrivere ad Alberto: “Riposa in pace, commodoro, la tua bambina può farcela”.