Donna da romanzo ottocentesco, Anna Proclemer. Bella da perderci la testa, bella di viso, corpo e mente e anima, femme fatale, come non ne nascono più. Capace di suscitare passioni da sublimare in opere d’arte, di rendere la sua vita un capolavoro. Nata in pieno dannunzianesimo, ha attraversato le follie, i dolori della storia più dura del 900, musa di artisti del calibro di Bontempelli, De Sica, Streheler, Brancati, che fu suo marito, un matrimonio burrascoso e troppo breve. A tanti ha spezzato il cuore, anche se lei stessa ammetteva, l’amore più grande era per il suo lavoro, e la figlia, l’unica figlia, Antonia Brancati. Una che aveva conosciuto Eliot, quell’Annina Vitali dagli occhi scuri, e scarrozzato in macchina Humphrey Bogart.
Poi fu Albertazzi, che quando il suo nome d’arte, Proclemer, significava già teatro e cinema italiano la introduce alla televisione, che la apre al grande pubblico, e che lei apre ai testi di Pirandello, Shaw, Dostoevskji. Quando la televisione faceva cultura, e servizio pubblico. Albertazzi, ovvero un sodalizio artistico e sentimentale, si legge nelle biografie. Una passione tumultuosa, altari e polvere. Fino alla vecchiaia. Non poteva amare ed essere amata invecchiando, Anna Proclemer. Testardamente e superbamente protagonista delle scene, ancora fino a pochi anni fa, tuttavia temeva il decadimento fisico, l’inevitabile addio. Se fosse stato sulla scena, magari, non in un letto o in una poltrona, disfatta la sua bellezza, indomato il cuore.
Ora che non c’è più, il suo ultimo grande amante e compagno, Albertazzi, rivela che più volte gli chiese di aiutarla a morire. Si può comprendere. Se tutta la tua vita è espressione della tua bellezza, della tua bravura, del tuo successo, è dura vedersi sfiorire, soprattutto mentalmente. Sembra più eroico finire con uno strappo, per quanto doloroso e violento, che accettare e aspettare che la morte arrivi. Che è il vero eroismo, il vero coraggio, la vera tempra umana che si rivela. Ma siamo troppo deboli e troppo impregnati di romanticismo, o di ideologia, per vedere con occhi limpidi. Romanticismo, che fa chiedere all’amato la morte. Tema della letteratura di ogni epoca e paese, il connubio fatale. Quando invece l’amore ama la vita, e l’amato a tal punto ama quella dell’altro da badargli un respiro, uno sguardo lontano. Altrochè spegnerlo, quel sorriso.
Quando l’amore è pazienza, misericordia e consolazione (mi viene in mente, prosaicamente, l’amore assoluto di Highlander per la fanciulla della giovinezza, diventata una vecchia stanca, eppure sempre unica e bellissima, agli occhi di chi le aveva dedicato l’eternità, non solo una vita).
L’ideologia, quella è più pericolosa. Di chi crede che sia libertà suprema togliersi la vita, di più, un diritto. Di chi di una debolezza, di un portato della solitudine o di uno strabismo esistenziale (non si vale per quel che si appare) fa una battaglia “civile”, vien detto. Così parla Giorgio Albertazzi, raccontando di non aver mai ceduto a quella richiesta. Giustamente. Non per vigliaccheria, ma per amore. E che adesso si vergogna di non aver detto sì, di non aver esaudito quel desiderio. Si vergogna della sua umanità piena, di ciò che è naturale e bello.
Anna Proclemer ha avuto una vita grandiosa, ricca, fortunata, lunga. Privilegiata. Senza gravi malattie. Si può comprendere, dicevamo, la stanchezza di una vecchia, il triste pensiero di un destino comune, che tutti ci turba e tormenta, al di là di ogni fede. Perché ci tocca l’ombra, e sarà per sempre? E’ la domanda cui nessun uomo può sfuggire, tenerla desta fino all’ulto battito di ciglia è la sfida: possiamo privare una persona amata di questa pienezza, di questo ergersi, umili ma fieri, davanti al compimento ultimo? No, la grandezza di un uomo non merita questa privazione. Questo scacco alla sua possibilità di giocarsela, e capire. Forse di trovare, perché no, il senso e la pace.