Non c’è da aggiungere parole alle parole di Martina Giangrande, la figlia del brigadiere rimasto gravemente ferito nell’attentato davanti a Palazzo Chigi. Non c’è da mettere parole sulle sue parole, così belle, così lucide, così piene di stima e di amore verso suo padre. Piuttosto conviene ascoltarle e anche riascoltarle per capire meglio di che pasta è fatto questo nostro paese. Non è la prima volta che la cronaca ci sottopone a testimonianze di questo tipo, di persone, colpite negli affetti più cari a causa di una violenza gratuita, e capaci di una dignità inaspettata.
Inaspettata: è questa la parola su cui dobbiamo ragionare. Perché noi dall’Italia, per un fatalismo che determina in maniera impressionante la coscienza collettiva, non ci aspettiamo più spettacoli di umanità come questi. Pensiamo che il tessuto complessivo della vita del paese sia quello che traspare nelle pagine dei giornali, nei talk show, nel cicaleccio dei socialmedia, e che atterra poi così spesso nella chiacchiera quotidiana diffusa dappertutto. Pensiamo che le famiglie siano solo ricettacolo di veleni, luoghi dove prima o poi inevitabilmente esplode qualche patologia; pensiamo che sui luoghi di lavoro la dimensione del dovere sia ridotta nell’angolo sparuto di qualche rara coscienza. Che il rispetto delle istituzioni sia solo una questione formale: parole di rito che coprono indifferenza o anche disprezzo.
Così, quando la cronaca ci sottopone testimonianze come quelle di Martina, restiamo un po’ interdetti. Ci chiediamo da che paese venga una persona come lei, come abbia potuto essere così, come abbia preservato tanta purezza respirando quell’aria malsana che circonda lei come noi.
Probabilmente è il caso di porci invece un’altra domanda: quanto quel fatalismo indotto goccia a goccia, notizia dopo notizia, ha reso patologico il nostro sguardo sul paese in cui viviamo?
Dal racconto di Martina emerge un paese di cui sembra i media (e noi, pedissequamente a ruota) abbiano perso totalmente percezione. Un paese dove nelle corsie di ospedale c’è professionalità e anche grande capacità di accoglienza umana; dove le forze dell’ordine hanno l’orgoglio della loro funzione; dove persino i rappresentanti delle istituzioni dimostrano attenzione e ascolto. La domanda che allora dobbiamo porci è se questa sia un’Italia delle favole, il paese degli ultimi “buoni”, o se quello che traspare dalle parole di Martina non sia invece spaccato di un’Italia vera, umile, ancora tanto diffusa ma di cui abbiamo come perso coscienza e percezione. La sensazione è che il nostro immaginario sia stato contaminato da questo pessimismo d’accatto disseminato a piene mani, grazie al quale una sorta di preconcetto condiziona ogni giudizio sulla realtà e il destino del nostro paese.
Invece di guardare a Martina come a una bellissima eccezione, esemplare di quel piccolo, residuale esercito dei buoni, dovremmo provare a pensare che l’Italia è un paese pieno di persone come Martina, di figlie che parlano in quel modo pieno d’amore e d’orgoglio dei loro padri; di ragazze piene di gratitudine per la solidarietà incontrata. Di donne che guardano alla vita, che pur è stata inclemente nei loro confronti, senza nessun risentimento, ma sempre con la convinzione che val la pena ricominciare. E che il domani merita sempre fiducia. Proviamo a guardare l’Italia così, e forse già ci troveremo in un paese molto diverso da quello in cui pensiamo di vivere. Un paese inaspettato, ma molto più vero di quello ci viene quotidianamente propinato.