L’osservatorio nazionale della salute lo ha detto forte e chiaro: i suicidi nel nostro paese sì aumentano, ma non secondo le proporzioni che trasmettono i mass media (l’aumento infatti è dello 0,01%), mentre invece aumentano i casi in cui sono le motivazioni economiche e sociali che portano al suicidio. Questo consacra due luoghi comuni tutt’altro che assodati: da un lato il fatto che la crisi incrementa i suicidi, e questo è drammaticamente vero, dall’altro che la politica sia la via d’uscita a tutto questo, e questo proprio non ha fondamento perché i paesi dove le tutele sociali sono maggiori hanno tassi di suicidio molto più alti di quelli del nostro paese in tempo di crisi.
Il problema, come sempre, sta oltre le cifre e i numeri, sta nella persona. Lo dimostrano i dati diffusi dallo stesso osservatorio sul costante aumento dell’utilizzo di psicofarmaci da parte della popolazione italiana: gli adulti di oggi (nati tra il 1953 e il 1988) sono più fragili di quelli di ieri e questa fragilità non dipende da una circostanza sociale, ma – bensì – da una debolezza della persona, meno sicura di sé e più paurosa della realtà. Trasferendo tutto questo sul piano esistenziale il fatto che emerge è sconcertante: noi oggi siamo meno certi di essere amati. Infatti solo la certezza dell’amore dà alla persona quello slancio e quella forza che la rende capace di resistere di fronte a tutte le circostanze della vita. Senza amore l’uomo è più debole e il suo cuore trema non nei grandi passaggi dell’esistenza, ma nei particolari della quotidianità. Se io non ho la certezza che tutto mi è dato da un Altro che mi ama, la mia risposta di fronte a quello che accade sarà pura reazione: o sentimento inebriante o rabbia che corrode, lentamente, la mia stessa capacità di amare e di costruire anche nella tempesta più impetuosa.
La crisi, pertanto, ha come messo a nudo le fondamenta del nostro vivere insieme e della nostra educazione: il nulla. Occupati a trasmettere nozioni o informazioni morali, ciò che abbiamo perso per strada è la capacità di trasmettere l’amore e la pienezza affettiva. Il vero dramma dei nostri giorni sembrano le cifre dello spread o delle esportazioni, ma in realtà risiede nella nostra capacità educativa di “tenuta” di fronte a quello che accade. Quanti matrimoni reggono all’urto delle difficoltà? Quante amicizie tengono di fronte alla scoperta del peccato? Quanti giovani rimangono fedeli ad un lavoro difficile e usurante? Per fare un uomo, dice un proverbio africano, ci vuole un intero villaggio. E a noi quello che manca è il villaggio, la consapevolezza di un compito e di un destino, la certezza di un bene per tutti e di una vocazione per ciascuno.
Non a caso oggi ci smarriamo continuamente nel mare dei sentimenti: proprio perchè manca la curiosità di scoprire il posto che il Costruttore ha assegnato a quella splendida pietra che è la mia vita. Così, perso ogni legame reale col Supremo Architetto, i legami affettivi si ingigantiscono e quelle che dovevano essere corde per attraversare in ferrata le montagne dell’esistenza diventano catene che appesantiscono il cammino e di cui, spesso, si perde anche il lucchetto. Ne emerge un quadro sconfortante in cui, al primo vacillare degli sguardi o dei progetti, il ricorso agli anti-depressivi sembra la via più sicura e normale, mentre – per chi intravede il vuoto che sta dietro tutto – si affaccia minacciosa l’ombra del nulla e la tentazione di consegnarsi spontaneamente al suo abbraccio mortale.
Quello che ci serve oggi non è anzitutto una nuova politica o una diversa strategia economica nè una crociata improvvida quanto sciocca contro la psicologia o gli psicofarmaci. Quello di cui oggi noi tutti abbiamo bisogno è un Padre. Non di quelli che ci inventiamo noi e che tiriamo fuori dai nostri idoli, ma un Padre che ci venga dato dal Cielo. Magari fastidioso, magari peccatore. Ma pur sempre nostro Padre. Custode di quello sguardo che nessuno di noi ha mai visto prima, ma che ognuno di noi attende per affrontare davvero le circostanze della vita.