Garantire la cittadinanza ai figli dei cittadini stranieri nati in Italia. È l’obiettivo dichiarato dal neo ministro per l’integrazione Cécile Kyenge, che rivendica un diritto che appartiene a molti. Da alcuni si parla di un disegno di legge sullo ius Soli (il diritto di terra) da varare nel giro di poche settimane. Un ddl all’americana: la cittadinanza legata non al sangue dei genitori, ma al luogo di nascita (di inserimento nella scuola e nel sistema fiscale).



Il principio è semplice: chi nasce in Italia, frequenta le scuole italiane, acquisisce un dialetto locale, paga i contributi e a tutti gli effetti è integrato, ha il diritto di essere cittadino italiano.

Molti sono scettici sulla proposta del ministro Kyenge, a cominciare dal presidente del Senato Piero Grasso che, in riferimento allo ius soli, ha parlato del “rischio è di vedere una gran quantità di donne venire in Italia a partorire solo per dare la cittadinanza ai propri figli”. Ma è don Mussie Zerai, sacerdote cattolico e presidente dell’Habeshia per la Cooperazione allo Sviluppo che, intervistato da ilsussidiario.net, rassicura chi teme un flusso migratorio in crescita verso il nostro paese: “Non è che tutte le donne incinte del mondo, se verrà data la cittadinanza ai loro figli, verranno a vivere in Italia solo per questo, ci sono molti altri paesi che adottano lo ius soli”.



Cosa dice di ciò che sta avvenendo in Italia riguardo alle discussioni sullo ius soli?

Da tanti anni, occupandomi della migrazione e in particolare dei rifugiati, chiedo che venga superata (attraverso delle iniziative che ho organizzato) l’attuale legge sulla cittadinanza per permettere anche a quelli che sono nati in Italia d veder riconosciuto il diritto alla cittadinanza. Perché sono Italiani a tutti gli effetti: nati e cresciuti in Italia, spesso nemmeno conoscono il loro paese d’origine, eppure vengono trattati come stranieri. Spero che questo ostacolo venga superato presto, è inutile cercare dei cavilli per impedire che questo avvenga. Anche il timore di alcuni politici è assurdo.



Il presidente del Senato Piero Grasso ha commentato la proposta del ministro per l’integrazione dicendo “Starei attento a parlare di ius soli, perchè il rischio è di vedere una gran quantità di donne venire in Italia a partorire solo per dare la cittadinanza ai propri figli . Meglio uno ius soli temperato dallo ius culturae”. È veramente così, ci potrebbe essere questo rischio?

In qualsiasi circostanza si corrono dei rischi, ma non credo che appena si venisse a sapere che è riconosciuta la cittadinanza per chi è nato sul suolo italiano, tutte le donne incinte del mondo si riverserebbero in Italia. Non è realistico, sono paure prive di ogni fondamento. Ci sono anche altri paesi europei che riconoscono il diritto alla cittadinanza per chi è nato sul suolo del loro paese, eppure non credo che ci sia questo flusso di donne incinte che vanno a partorire in questi paesi.

Non c’è rischio che il numero di clandestini possa aumentare in Italia?

Non credo al punto da poter spaventare le istituzioni o l’opinione pubblica. Non cambiando le cose, di fatto le istituzioni negano il diritto di altri milioni di ragazzi e ragazze nati sul suolo italiano che hanno studiato, si sentono e sono italiani. Anche adesso negli sbarchi ci sono tante donne incinte che arrivano non perché sanno che in Italia si può ottenere la cittadinanza ma per disperazione, per fuggire dalla loro realtà di persecuzione, di guerra, di fame. Incinte o non incinte vengono. È la realtà dei fatti. Resto dell’idea che non cambierebbe granché.

 

Chi sono “i disperati” che fuggono dal loro paese?

Sono quelli che arrivano con il “barcone”. Spesso sono somali (sappiamo cosa si sta vivendo in Somalia anche a causa di interventi internazionali non risolutivi), o vengono dall’Etiopia, dall’Eritrea (una dittatura), io dal Sudan nella zona del Darfour o nel sud del Kurdistan, paesi in guerra. Sono persone che fuggono da realtà difficili e non stanno a guardare se in Italia c’è lo ius soli, partono per salvare la pelle e basta.

 

Mentre chi, invece, è già in Italia e ancora non si vede riconosciuto il diritto alla cittadinanza che disagio vive?

Il disagio è non avere la pari dignità con i loro compagni. Ad esempio ci sono alcuni ragazzi minorenni figli di stranieri che devono rinunciare alle gite scolastiche perché non avendo la cittadinanza, gli scade il visto o altri documenti. E questo crea anche sul piano psicologico motivo di sofferenza per i ragazzi. Non hanno né pari dignità e né pari diritti su ciò che riguarda la loro formazione: non avendo la cittadinanza non possono competere con i loro compagni, mi riferisco a borse di studio, concorsi o esperienze all’estero… Sono nati e cresciti in questo paese, parlano il dialetto del posto dove sono nati e cresciuti eppure a un certo punto della loro vita gli si dice che non sono italiani, e questo è veramente discriminante.

 

La Kyenge non si è fermata allo ius soli. Sembra infatti che stia guardando con attenzione alla modifica della gestione dei centri di identificazione ed espulsione. Pensa anche lei che ci sia qualcosa da rivedere?

In teoria va rivista tutta la legge Turco-Napolitano, successivamente aggravata e peggiorata dalla legge Bossi Fini. Va rivista la politica dell’emigrazione e adeguata alle direttive europee. Il sistema d’accoglienza in Italia non c’è, non garantisce la dignità delle persone accolte.

 

A cosa pensa in particolare?

A Roma più di 5000 persone vivono in baraccopoli, in palazzi fatiscenti, in condizioni inaccettabili. L’Italia ha dato loro il permesso di soggiorno per rimanere nel territorio italiano però senza nessun tipo di assistenza, senza garantire un minimo per cominciare una nuova vita e questo va cambiato. Anche le strutture dove vengono tenuti, questi centri di identificazione o di espulsione vanno umanizzati, perché abbiamo già avuto molti casi di suicidi a causa della condizione degradante. Non dimentichiamoci che là dentro vivono degli esseri umani, non degli oggetti.

 

(Elena Pescucci)