In questi giorni in cui il nostro Paese sta uscendo dallo stallo determinato dall’ultima tornata elettorale, tra i tanti elementi di novità introdotti dal governo presieduto da Enrico Letta, uno ha riscosso particolare attenzione. La decisione di affidare il dicastero per l’integrazione a Cécile Kyenge, primo ministro di colore della storia repubblicana, e la determinazione di quest’ultima nel voler introdurre lo ius soli, ovvero il diritto di essere cittadino italiano per chiunque nasca in Italia, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. Una questione delicata e complessa che meriterebbe una discussione capace di andare oltre i pregiudizi sociali e le convenienza elettorali, che sembrano essere dietro il dibattito di questi giorni sull’argomento. 



Proviamo a fare qualche considerazione. Il tema del dialogo interculturale è di assoluta attualità, non solo in Italia. Lo testimoniano le migliaia di iniziative che si susseguono in Europa e in tutto il mondo quotidianamente e che hanno la loro espressione sovrana nell’Organizzazione delle Nazioni Unite che attraverso Unaoc (United Nation Alliance of Civilization) adotta significativamente come motto: “Many cultures. One humanity”. A una recente conferenza, alla quale ho avuto modo di partecipare, il Segretario Generale Ban Ki-moon ha ricordato che la maggior parte dei conflitti attualmente in corso nel mondo sono determinati da contrasti di origine culturale, religioso ed etnico. In questo senso, ha sottolineato l’importanza di tutte quelle iniziative che vadano nella direzione di favorire l’incontro tra culture e il dialogo, perché questo rappresenta il migliore deterrente per evitare il ripetersi o il protrarsi dei conflitti negli anni a venire. 



Si tratta di un tema fondamentale che, finalmente, sta emergendo con tutta la sua forza a vari livelli e in tutte le sedi. In Italia non mancano gli esempi eccellenti, non solo da parte di aziende e privati, ma anche da parte di chi, presiedendo all’educazione e alla formazione dei giovani, svolge un ruolo vitale per la società del futuro. Mi riferisco alla scuola. Già nel dicembre del 2002, ad esempio, l’Università di Milano Bicocca diede vita ad una Giornata di studio e d’incontro tra operatori, istituti, professionisti, studenti, ricercatori e associazioni, per confrontarsi e indicare dei percorsi condivisi, pur nel rispetto delle diverse scelte metodologiche e delle nuove idee. Un passo deciso per superare l’intolleranza e le divisioni e aprirsi al dialogo, formandosi all’intercultura. 



Del resto, se guardiamo l’Italia da un punto di vista statistico, il cambiamento è sotto gli occhi di tutti. Secondo l’Istat (dati ripresi recentemente dal settimanale Internazionale), nel 2010 i lavoratori stranieri hanno contribuito per il 12% al Pil italiano e tra il 2005 e il 2011, il numero degli imprenditori stranieri è cresciuto del 48% a fronte di un calo di quelli italiani del 9,3%. 

Sono stranieri il 72% dei lavoratori domestici, l’11,5% dei commercianti e il 17,3% dei costruttori. Siamo in una società multietnica, multireligiosa e multirazziale. Negarlo, significa non solo essere fuori dal tempo, ma volersi opporre ad un cambiamento che sta portando grande ricchezza. Certo, esistono anche problemi sociali e talvolta anche di ordine pubblico (pensiamo agli sbarchi massicci sulle coste di qualche anno fa), ma questo fa parte della dinamica stessa del mondo aperto e connesso nel quale viviamo oggi. 

Qualche anno fa nel suo Sfere di Giustizia Michael Walzer, parlando proprio del tema dei lavoratori ospiti diceva: “I cittadini democratici hanno dunque una scelta: se vogliono far entrare nuovi lavoratori, devono essere pronti ad allargare l’ambito della loro appartenenza, e se non sono disposti ad accettare nuovi membri devono trovare il modo di far svolgere il lavoro socialmente necessario entro i limiti del mercato interno del lavoro. Non hanno altra scelta. Il loro diritto di scegliere deriva dall’esistenza di una comunità di cittadini in questo particolare territorio, e non è compatibile con la distruzione della comunità o con la sua trasformazione in un’ennesima tirannia locale”. Allargare l’ambito dell’appartenenza e rifuggire la tirannia. Due obiettivi che sono strettamente connessi con il dialogo interculturale e la voglia di andare incontro ad un mondo diverso, con meno tensioni e più opportunità per tutti. 

In questo percorso che il mondo sta facendo, o meglio sta cominciando a fare, credo che un ruolo determinante sarà giocato dai bambini. Quest’anno ricorre il 70esimo anniversario del Piccolo Principe di Saint-Exupéry, un testo che ha mantenuto inalterata la sua forza nel tempo e rimane di grande stimolo. “Se − dice il Piccolo Principe − vi ho raccontato tanti particolari sull’asteroide B612 e se vi ho rivelato il suo numero, è proprio per i grandi che amano le cifre. Quando voi gli parlate di un nuovo amico, mai si interessano alle cose essenziali. Non si domandano mai: “Qual è il tono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?” ma vi domandano: “Che età ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre? Allora soltanto credono di conoscerlo”. 

La pensano nello stesso modo i miei figli che frequentano scuole pubbliche, dove il dialogo interculturale è quotidiano perché la loro esperienza in classe, ogni giorno, è basata sul confronto e l’integrazione con bambini di diverse culture e provenienze. E che si tratti di qualcosa di naturale e spontaneo, lo testimonia il fatto che quando un adulto chiede loro: “Ci sono bambini stranieri nella tua classe?”, loro prontamente e con sicurezza rispondono: “No”. 

Dialogo interculturale significa tornare bambini. Aver voglia di conoscere. E non avere fretta di diventare grandi, imponendo agli altri la propria visione del mondo. E lo ius soli non è il problema più importante.