Difficilmente mi capita di metter bocca in procedimenti giudiziari, meno che mai quando si tratta di alcuni processi, la cui portata mediatica, peraltro, mi appare un po’ troppo spinta. A prescindere da chi sia l’imputato. Sia chiaro, una diretta di ore ed ore su una tv satellitare sulla vicenda Ruby è fatto alquanto bizzarro in un Paese che di problemi al momento ne ha molti altri. E non solo in campo economico o politico.



Penso infatti che un Paese nel quale un uomo decide di scendere in strada con un piccone a colpire deliberatamente i passanti, uccidendone (finora) due, è un Paese che deve guardarsi dentro, molto a fondo. Penso che un Paese in cui un uomo rincorre una donna con un’accetta per ucciderla fin dentro una caserma dei Carabinieri abbia bisogno di leggi più adeguate contro la violenza, piuttosto che dirette estenuanti in processi che nemmeno in un’aula bunker riceverebbero tanto spazio mediatico. Rispetto profondamente la giustizia e i dettami che essa impone, ma mi preme dire che in una requisitoria non tutto si può dire. Quando ho ascoltato le parole di Ilda Boccassini, pubblico ministero della Repubblica Italiana, che descrivevano Karima el Mahroug come “furba, con la furbizia tipica delle sue origini orientali” ho capito che la storia stava prendendo una piega alla quale occorreva dare subito un freno. Si, perché “furbizia orientale”, a patto che il Marocco si trovi in Oriente invece che in Nordafrica e quindi nel Mediterraneo, è un termine che non è nella maniera più assoluta accettabile. Per tutta una serie di motivi.



L’accostamento fra un certo atteggiamento o un certo modo di essere e una specifica etnia o cultura crea, in un Paese come l’Italia in cui la cattiva comunicazione la fa da padrone, un sentimento assai controverso che si inserisce in un clima già di per sé surriscaldato. Per via dell’imputato e dell’oggetto del presunto reato. E che potrebbe ingenerare strani pensieri in chi cerca solo un movente per colpire.

Cerchiamo di capirci, così poniamo fine ad ogni eventuale strumentalizzazione. Un pm può legittimamente strutturare la sua arringa come meglio crede, ma non risulta molto corretto utilizzare una provenienza geografica per costruire un qualsivoglia assunto. Pronunciare la parola marocchina circa cento volte, che significato ha? Perché rimarcare continuamente una provenienza geografica in un processo? Fosse stata italiana o magari svedese la provenienza geografica avrebbe avuto lo stesso peso? Non basta il nome di una persona per definirne un comportamento eventualmente illecito? Francamente non saprei dare una spiegazione ad un atteggiamento del genere. 



Io so solo che di marocchine, orientali, mediorientali, italiane e chi più ne ha più ne metta ne vedo a centinaia ogni settimana e di certo non sono “furbe”, visto che cadono sotto le botte e gli sgozzamenti di mariti o compagni che le segregano e le uccidono. Eppure nessuna telecamera viene a riprendere i tour de force che si tengono in quelle aule. Aule vuote, fredde, desolatamente abbandonate. O magari ai processi per lo sfruttamento delle ragazze minorenni che sulle strade subiscono l’inferno della schiavitù sessuale, ma che non fanno notizia anche se la loro presenza inonda le strade di parecchie città d’Italia.

I pm che sono impegnati nei processi di violenza e di omicidio contro le donne, marocchine e non, ai quali va tutta la mia riconoscenza per la bravura e la sensibilità, non vanno a scavare nel profondo di una appartenenza geografica o di una nazionalità. Perché non ce n’è bisogno. Perché un reato è un reato a prescindere dalla nazionalità e questo lo sanno bene coloro che si strappano le vesti quando uno straniero che delinque viene accompagnato dalla specifica della sua nazionalità. Gli stessi che oggi tacciono. Stranamente e clamorosamente, direi. Come tacciono quando le donne vengono massacrate ogni giorno. Eppure spesso sono marocchine, ma nessuno si sogna di fare della loro nazionalità un vessillo della battaglia contro le orrende attenuanti culturali o contro una violenza che le prende sempre più di mira.

Fare parte di un popolo o venire da un certo Paese non è sinonimo di un bel niente, ma solo un dettaglio. Importante, ma un dettaglio, che non caratterizza proprio nulla. Quanto volte ho sentito queste parole sulla bocca di personaggi, anche molto noti, che fanno della battaglia sul razzismo la propria ragione di vita. Ma oggi niente di niente. Un silenzio che stride profondamente con il clamore che la vicenda ha suscitato nei media arabi e marocchini in particolare, che danno la notizia in prima pagina. E questo, per il nostro Paese, l’Italia, non è certo un vanto.

Mi chiedo, a questo punto: è forse più importante un imputato da condannare di una cultura o una provenienza accostate impropriamente a circostanze poco piacevoli? Questa vicenda, nella sua pesante connotazione etnico-culturale, altro non ha fatto se non rendere chiaro come alle esigenze della costruzione di una tesi accusatoria ogni strumento concettuale possa essere utile. Anche se trascina nell’agone una cultura che niente ha a che fare con i fatti in oggetto. Ma certe culture occorrerebbe conoscerle prima di utilizzarne accezioni improprie. Come occorrerebbe conoscere la fine che fanno molte donne di quella presunta “cultura”. Sgozzate, massacrate, segregate, umiliate, velate a forza, scomparse. Nel nostro Paese. Oppure seppellite nel giardino di casa dopo essere state uccise. Sicuramente per colpa della loro furbizia.