Pensate a cosa passa per la testa di un bimbo piccolo, la mattina presto, quando lascia l’abbraccio di sua mamma, e non sa calcolare per quanto tempo non potrà vederla. Pensatelo trascinare lo zainetto con la merenda, con quel grembiulino che tira un po’ sulle spalle, per corridoi e stanze da condividere con altri bambini, che non ha affatto voglia di conoscere. Oppure, se è più grandicello, irrompere correndo e inventare scherzi e lazzi, così, per farsi vedere, sapendo bene che le maestre sorridono, e gliene perdonano tutte.



Quelle maestre mamme sempre pronte col fazzoletto a pulire i moccoloni dal naso, con una salviettina sulle ginocchia sbucciate, che sanno raccontare storie così belle e far saltar fuori dalle pagine di libri colorati, pieni di formichine nere nere, principesse e draghi, marziani e supereroi. Che ti lasciano sporcare di farina il tavolo, e disegnare sui muri, e fanno girare forte forte la giostra che gira la testa, e se piangi, perché si piange spesso a tre, quattro anni, sanno consolare e dire parole così dolci che qualche volta riesci a sopportarla, l’assenza della tua mamma.



Pensate a un bimbo così, un bimbo come tutti, che ogni giorno deve aver paura, che sente solo urlare, che non può piangere né farsela sotto se trema, perché gli fanno pulire la pipì in terra, anche con la faccia se non sta attento, ma sì, l’ha detto lei, l’ha detto quella maestra. Quel bimbo che non riesce a parlare, che non sa dire yellow davanti a un limone o red per una mela, quello che sta sempre in un angolo, da solo, e già i compagni lo prendono in giro.

Quel bambino lì si sente chiamare sempre bastardo e scemo e zozzo, e ha paura anche degli altri bambini, perché la maestra cattiva manda loro, che sono forti, a picchiarlo e spintonarlo quando scende le scale, a dargli le sberle sulla testa, ridendo. Un bambino così’, come tutti i bambini, cosa può pensare dei grandi, di quelli che dovrebbero accoglierlo, e di quelli che dovrebbero custodirlo, e avere a cuore la sua letizia.



Mamma, papà, perché mi volete male? Come può pensare che non si tratti, ogni giorno, di un abbandono? Come potrà, fra qualche anno, entrare a scuola allegro e desideroso di imparare, e cercare in un adulto un maestro, una guida, un braccio e una mente sicuri per spalancarlo alla realtà? Un bambino così, come tutti i bambini, sarà malvagio o debole, insicuro, o semplicemente indifferente, chiuso in un sospetto castrante verso tutto e tutti. 

Per questo la storia dell’asilo di Roma, con la maestra e la preside complici in maltrattamenti e ingiurie ai piccini, è grave e oscena. Nessun sentimentalismo: i bimbi non vanno trattati a zuccherini, tocca essere dolcemente fermi, essere quel che ci chiedono di essere, dei grandi con un ruolo, che vogliono il loro bene, in ogni attimo della giornata. Qualche volta devono dirti no, è normale, proprio come la mamma. Ma infierire sui piccoli ci scandalizza giustamente non solo per l’oggi, che perfino uno scappellotto si può dimenticare. Ma per quel che può generare domani.

La storia dell’asilo di Roma, come tanti altri asili, perché ce ne sono ogni anno, di storie così, e le botte e gli insulti non sono gli abusi peggiori, ci spinge a una responsabilità. La sfida educativa è troppo importante per affidarla a mani indegne e impreparate. Adesso le maestre d’asilo devono essere laureate. Probabilmente ci sono ragazze ben più competenti di un tempo, sanno di psicologia e pedagogia, hanno un pezzo di carta da esibire, e mi auguro che sia loro utile, dopo tanta fatica, per trovare un posto di lavoro stabile, appassionante. Ma che abbiano a cuore anzitutto la loro umanità, che guardino ad ognuno dei piccoli che incontrano ogni mattina come a un dono, a una rarità preziosa e inimitabile, da addomesticare, come il Piccolo Principe con la volpe, o con la sua rosa solitaria sul pianeta lontano. Ogni bimbo è un pianeta, ogni bimbo va scoperto e amato per quel che è, con infinita tenerezza, per la sua meravigliosa fragilità. Che ci ricorda chi siamo, che ci mette al servizio per tirar su forti e sereni uomini donne, per il tempo che ci sono affidati.

Oggi gli adulti, tutti noi adulti, soffriamo di una fragilità che non è coscienza costitutiva dell’essere, ma freno inibitore da esorcizzare con violenza e trasgressione. Qualche sociologo parla di stress, lo attribuisce di solito alla società, alle sue contraddizioni. Tocca avere il coraggio di guardare in faccia i nostri nonni, che di stress non hanno mai sentito parlare, ma hanno vissuto tra guerre e persecuzioni, tra miseria e sacrifici. Sapevano, quelli buoni, come tirar su un bambino. Che quelli cattivi, un tempo come oggi, sono colpevoli loro, e non contano affatto le condizioni che vivono, magari le più sfavorevoli. 

Se un uomo o una donna non sa reggere le condizioni, se è esaurito o in crisi, non si occupi di bambini, e lo Stato deve osservare scrupolosamente che questo non accada. Magari tralasciando concorsi e attestati, e ampliando monitoraggi e colloqui a quattr’occhi con i futuri insegnanti. E’ già tardi quando si installano telecamere nascoste. 

Onore alle forze di polizia, che hanno prestato fede ai sospetti, alle accuse, e sventato un malcostume delinquenziale e offensivo. Alla maestra che umiliava i bambini, e alla preside che la copriva, chissà perché, lo scopriremo (familismo? Ricatti? Stupidità? Non è possibile pensare che ne condividesse i metodi educativi), toccherebbe leggere tutti i giorni quelle parole evangeliche, che attestano la preferenza per i più piccoli, e la condanna durissima di chiunque faccia loro del male. Anche laicamente, è la preferenza per l’essere, per il futuro.