Sono cominciati i lavori della 65esima assemblea nazionale della Conferenza Episcopale italiana che durerà fino al 24 maggio. Pubblichiamo il testo integrale del discorso introduttivo del cardinale Angelo Bagnasco

Venerati e Cari Confratelli.

La Chiesa e il mondo guardano a Roma

Nell’eco viva della Pentecoste, ci troviamo per il consueto e mai scontato compito di collegiale discernimento che riguarda la Chiesa in Italia. Viviamo questo momento con la responsabilità dei Successori degli Apostoli, con il pastorale affetto per le nostre Comunità, e con amore convinto e rispettoso per il nostro Paese. Il nostro sguardo – come sempre – incrocia lo sguardo del Successore di San Pietro che, Vescovo di Roma, è partecipe di questa Assise a titolo speciale ed unico, e che già attendiamo per la solenne “professio fidei” da lui presieduta sulla tomba del Principe degli Apostoli. Il nostro cuore desidera pulsare con il cuore di Papa Francesco al quale, scelto dal “confine del mondo”, Cristo ha affidato la Chiesa universale, e che ha affidato al popolo di Dio, a quel popolo a cui il nuovo Pontefice chiese di invocare su di lui la benedizione del Signore. Vediamo che è subito entrato nell’anima della nostra gente, la quale sempre più numerosa affolla il cenacolo di Piazza san Pietro.



Avvolti dal vento dello Spirito che sospinge la barca della Chiesa, il nostro primo pensiero va dunque al Santo Padre Francesco. Da questa storica aula vorremmo fargli arrivare la nostra voce, in attesa di ascoltare la sua per la prima volta indirizzata a noi, Vescovi d’Italia. E che cosa vorremmo dirgli in questo iniziale momento del comune cammino? Vorremmo dirgli il nostro grazie per aver accolto con fiducia la parola che Gesù disse a Pietro sulla riva del mare: “Pasci le mie pecorelle”. Parola dolce e terribile insieme, che ha spalancato davanti agli occhi attoniti dell’Apostolo il mondo intero, fino ai suoi confini, fino alle periferie più lontane. Ovunque c’è un’anima, lì c’è Pietro che ha il mandato di “pascere” con la misericordia della verità e dell’amore. In questo straordinario compito, vorremmo aggiungere che non sarà mai solo, perché accompagnato e sorretto dalla preghiera nostra e del popolo, affinché l’olio della forza e il vino della gioia non vengano mai meno alla sua mensa. Vogliamo assicurargli il sostegno della nostra leale e generosa obbedienza, per seguirlo sui sentieri che indicherà verso i pascoli alti della santità nostra per il bene dei nostri sacerdoti e delle comunità.



Il pensiero, all’inizio di questa Assemblea Generale, corre rapidamente agli eventi che abbiamo vissuto con il popolo cristiano e non solo. Il ricordo va anzitutto all’improvvisa e storica rinuncia di Papa Benedetto XVI, l’undici febbraio scorso: il mondo intero rimase col fiato sospeso, mentre sembrava aprirsi a un progressivo, universale abbraccio di affetto e di ammirazione per la sua persona, che appariva tanto più grande nella sua coraggiosa e umile decisione. A lui rinnoviamo, insieme a tutti i Vescovi dell’Orbe, la nostra filiale gratitudine per i suoi otto anni di luminoso pontificato e, mentre ci affidiamo alla sua intensa preghiera, gli assicuriamo la nostra. La Chiesa da subito si è posta in fiduciosa attesa di un nuovo Pastore secondo il cuore di Cristo e, come un’onda crescente e visibile, da ogni punto della terra, la preghiera ha cominciato a salire verso Roma, verso il cuore della Cristianità, sempre più abbracciando i Cardinali sui quali gravava il compito della scelta. Così in Conclave – avvolti dal silenzio della Cappella Sistina e separati dal mondo – ogni Cardinale elettore, davanti alla maestà del giudizio finale, doveva individuare in coscienza colui che lo Spirito Santo aveva scelto come Vescovo di Roma e universale Pastore. E così è stato. Momento grave, carico di responsabilità, ma anche esperienza straordinaria di fede nella certezza che Cristo, Pastore dei Pastori, guida la Chiesa: nelle sue mani è salda e serena.



Avviando i lavori assembleari salutiamo con viva cordialità il Nunzio apostolico in Italia, l’Arcivescovo Adriano Bernardini, che amabilmente è già qui tra noi e la cui parola ascolteremo mercoledì prossimo nella concelebrazione eucaristica nella Basilica di San Pietro.

La Chiesa è una storia d’amore

 

 Fuori dallo sguardo di fede, non è possibile comprendere nulla del mistero della Chiesa, e ogni lettura distorce perché mondana. Ciò non deriva da qualche strategia oscura, non esiste nessun arcano: si tratta della straordinaria semplicità di Dio che sfugge alle complicazioni divisive degli uomini, e che fa della Chiesa il luogo dove Dio e l’uomo s’incontrano e insieme scrivono il cammino. Ecco perché – come da subito ha affermato Papa Francesco – la “Chiesa non è una ONG. È una storia d’amore” (Omelia a Santa Marta, 24.4.2013). Una storia d’amore tra Dio e gli uomini! È proprio questo sguardo soprannaturale sulla Chiesa-mistero – già affermato dal Concilio Vaticano II – che il Santo Padre ha richiamato con insistenza a tutti, quasi volesse tradurre con parole attuali la suggestiva immagine di Sant’Ambrogio sulla Chiesa come “misterium lunae”. Essa rimanda non a se stessa, né tanto meno in prima istanza alla capacità organizzativa degli uomini, ma a Cristo, il vero sole che illumina e si riflette sul volto della luna, la Chiesa. In altri termini, non si capisce la Chiesa se non si guarda a Cristo: qui sta il cuore pulsante e luminoso del suo essere “mistero”, cioè “sacramento”, luogo d’incontro tra Dio e l’uomo: “Ma cos’è questa Chiesa – insiste il Santo Padre – Questa nostra Chiesa, perché sembra che non sia un’impresa umana (…). La Chiesa incomincia là, nel cuore del Padre (…). Il Padre ha avuto amore, e ha cominciato questa storia d’amore, questa storia d’amore tanto lunga nei tempi e che non è ancora finita (…). Noi, donne e uomini di Chiesa, siamo in mezzo ad una storia d’amore: ognuno di noi è un anello in questa catena d’amore. E se non capiamo questo, non capiamo nulla di che cosa sia la Chiesa (…). E quando la Chiesa vuol vantarsi della sua quantità e fa delle organizzazioni, e fa uffici e diventa un po’ burocratica, la Chiesa perde la sua principale sostanza e corre il pericolo di trasformarsi in una ONG. Ma la Chiesa non è una ONG. È una storia d’amore (…). La Chiesa è Madre, e noi siamo in mezzo ad una storia d’amore che va avanti con la forza dello Spirito Santo. E noi, tutti insieme, siamo una famiglia nella Chiesa che è nostra Madre” (ib). Viene in mente quanto Benedetto XVI disse in Germania parlando delle strutture della Chiesa: “Ma dietro le strutture vi si trova anche la relativa forza spirituale? Sinceramente dobbiamo dire che c’è un’eccedenza delle strutture rispetto allo Spirito” (Incontro con il Consiglio del Comitato Centrale, Germania, 24.9.2011).  Con umiltà e gratitudine dobbiamo costatare che, nonostante limiti e ombre, anche gli uomini contemporanei guardano alla Chiesa con rinnovato interesse e  fiducia; ne è segno concreto anche la crescente partecipazione al sacramento della riconciliazione. Sempre a proposito della Chiesa, Papa Francesco si chiede: “Come cresce la Chiesa? (…) La Chiesa non cresce con la forza umana (…). Gesù l’ha detto semplicemente: come il seme della senape, cresce come il lievito nella farina, senza rumore” (Omelia cit., 24.3.2013).     

 

      Cari Confratelli, l’inizio del Pontificato ci invita a ritornare sulla bellezza e sul mistero della Chiesa nella luce della grande contemplazione del Concilio Vaticano II, e con la stessa passione che scaldava il cuore dei Padri conciliari: “L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (…) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari della trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo cultori dell’uomo” (Paolo VI, Discorso di chiusura del Concilio Vaticano II, 7.12.1965). è una contemplazione grata e gioiosa, ma anche motivo per rinnovare la fiducia, rinvigorire il coraggio, confermare la nostra  responsabilità di Pastori per prendere il largo, per uscire dai piccoli porti e “osare il Vangelo” sospinti dallo zelo missionario. Vengono alla mente alcune parole di E. Mounier: parlando del cristiano, lo esorta affinché “metta la vela grande dell’albero di maestra, e (…) salpi verso la stella più lontana senza badare alla notte che l’avvolge” (L’avventura cristiana). Queste parole le sentiamo nostre, consapevoli che la primissima forma di questo prendere il largo è la nostra santità. È questo il volto decisivo di quella “carità pastorale” che caratterizza la nostra vocazione e missione: a questa “misura alta della vita cristiana ordinaria” (Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 31) il popolo di Dio non deve rinunciare mai, tanto meno noi Pastori.

 

Una Chiesa che fa vedere la fede

 

    Nel decennio scorso, gli Orientamenti pastorali ci hanno sospinti ad “Annunciare il Vangelo in un mondo che cambia”. Oggi, il Papa conferma questa nostra attenzione missionaria che ora stiamo vivendo in ottica educativa: “Tra i compiti affidati dal Maestro alla Chiesa c’è la cura del bene delle persone, nella prospettiva di un umanesimo integrale e trascendente (…). Anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile. La sua sorgente è Cristo risuscitato da morte” (CEI,Educare alla vita buona del Vangelo, n. 5). È l’annuncio di Gesù il perno e lo scopo della vita e della missione della Chiesa, come ha riaffermato anche il recente Sinodo Generale Ordinario sulla nuova evangelizzazione. Ed è sempre Lui il centro attorno a cui stiamo costruendo il prossimo Convegno Ecclesiale della Chiesa italiana a Firenze nel 2015: Lui, il suo mistero con le implicazioni umanistiche ed educative che vorremmo offrire alle comunità ecclesiali, ma anche alla società intera. Il primato di Dio nella vita dei cristiani deve risplendere nella sua bellezza, consapevoli che il Maestro ci ha inviati nel mondo per condividere “ciò che abbiamo di più prezioso: non sono le nostre opere o le nostre organizzazioni, no! Quello che abbiamo di più prezioso è Cristo e il suo Vangelo” (Papa Francesco,Omelia, 12.5.2013). 

 

 

Ma perché questo accada, perché la nostra fede possa essere “vista” da tanti il cui cuore attende di vedere uno squarcio di cielo, è necessario innanzitutto arrendersi all’Amore di Dio che si è rivelato e donato in Gesù, e in secondo luogo continuare a lottare per “vincere indifferenza e individualismo che corrodono le comunità cristiane e corrodono il nostro cuore (…) Quanto danno arreca la vita comoda, il benessere; l’imborghesimento del cuore paralizza” (Papa Francesco, Omelia 12.5.2013). In questa ottica missionaria ed educativa, il Papa incalza con la domanda: “Come sono io fedele a Cristo? (…) Sono capace di far vedere la mia fede con rispetto, ma anche con coraggio?” (ib). Sono domande semplici e dirette, che vanno a scavare l’anima di ciascuno e delle comunità. Una terza condizione, perché la fede diventi visibile, ci viene indicata parlando della nuova Santa Laura Montoya: “Questa prima Santa nata nella bella terra colombiana ci insegna ad essere generosi con Dio, a non vivere la fede da soli – come se fosse possibile vivere la fede in modo isolato – ma a comunicarla, a portare la gioia del Vangelo con le parole e la testimonianza di vita in ogni ambiente in cui ci troviamo (…). Ci invita ad amare come Gesù ci ha amato, e questo comporta non chiudersi in se stessi, nei propri problemi, nelle proprie idee, nei propri interessi, in questo piccolo mondo che ci arreca tanto danno” (ib). Si tratta, dunque, non solo di vivere la fede della Chiesa, ma anche di vivere la fede con la Chiesa, cioè in compagnia dei fratelli e della sorelle, nel grembo della comunità cristiana. Solo così è possibile seminare il seme prezioso della fede a larghe mani come il seminatore del Vangelo, senza paura di sprecare la semente sulle pietre o tra i rovi. Il credente sa che il dovere di annunciare a tutti la fede è un compito ma anche una grazia per lui stesso, poiché la fede si rafforza donandola, cioè guardando fuori di noi stessi, e ricordando che “quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio” (Papa Francesco, Omelia 14.3.2013), e “quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare diventa autoreferenziale e allora si ammala” (Card. J. M. Bergoglio, Discorso ai Cardinali prima del Conclave). 

Nel cuore dell’Anno della fede, siamo così confermati a crescere nella fede, tenendo conto anche degli appuntamenti internazionali previsti a Roma con il Santo Padre. La stessa Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro, la prima di Papa Francesco proprio nel suo continente, sarà un’occasione di confessione e di annuncio della fede dei giovani ai giovani del mondo. Come nelle altre Giornate, anche questa volta apparirà il volto giovane della Chiesa, e noi Pastori saremo incoraggiati, quasi rigenerati dalla giovinezza dei nostri ragazzi. Anche a Madrid, nel 2011, l’esperienza della gioia sostanziosa di moltissimi giovani e del loro affetto per la Chiesa, il Papa e i Vescovi, è stata una grazia che ci ha contagiati e di cui siamo loro profondamente grati.

 

Le opere della fede

 

 Se, come scrive Benedetto XVI, “un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali” (Caritas in veritate, 4), sappiamo che un Cristianesimo senza carità può venire scambiato per una ideologia, una astrazione (cfr Benedetto XVI, Deus Caritas est). Noi conosciamo la storia della Chiesa italiana, e bene la conoscono le nostre comunità, il popolo della nostra terra. È una storia di capillare diffusione e di  radicamento che – al di là delle circostanze storiche che si sono succedute nei millenni – è ispirata al mandato di Gesù di raggiungere tutte le genti fino ai confini della terra: città, borghi e villaggi, mari, monti e colline. Ma anche fino ai confini dell’esistenza umana nei diversi ambiti di vita – dalla casa al lavoro, dal tempo libero alla vita pubblica – come nelle situazioni esistenziali dell’amore, della gioia e del dolore. Ovunque, si è cercato di offrire una presenza amica che rendesse visibile la mano provvidente di Dio nel mondo, in particolare per i deboli e i poveri; che fosse annuncio credibile di Cristo – nonostante limiti e fragilità umane – e segno della maternità della Chiesa. Che suonasse profezia di quella umanità nuova che il Redentore aveva iniziato con la sua Croce. Che, infine, diventasse pungolo fraterno per la città degli uomini affinché edifichi una società accogliente e giusta. Specialmente in certi tornanti della storia del nostro Paese, la Chiesa è stata una risposta pronta e certa – a volte l’unica – ai bisogni più diversi e urgenti che chiedevano non solo tutte le risorse possibili del momento, ma la fantasia della carità e capacità organizzativa, non di rado avanzando i tempi e intuendo bisogni. In modo incisivo Paolo VI, a conclusione del Concilio, diceva: “Per conoscere l’uomo, l’uomo vero, l’uomo integrale, bisogna conoscere Dio (…). Che se, venerati Fratelli e figli qui presenti, noi ricordiamo come nel volto di ogni uomo, specialmente se reso trasparente dalle sue lacrime e dai suoi dolori, possiamo e dobbiamo ravvisare il volto di Cristo (…), e se nel volto di Cristo possiamo e  dobbiamo ravvisare il volto del Padre celeste (…), il nostro umanesimo si fa cristianesimo, e il nostro cristianesimo si fa teocentrico: tanto che possiamo altresì enunciare: per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo” (Discorso di chiusura del Concilio Vaticano II, 7.12.1965). 

 

È questa la nostra storia, e se qui ne ho appena evocato i tratti e le ragioni, è solo per confermare quell’attenzione operosa e quotidiana cha mai ha abbandonato l’annuncio della Parola e la vita liturgica delle nostre comunità cristiane, memori delle parole dell’Apostolo Giacomo: “Mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede” (Gc 2,18). In questa prolungata crisi economica, non è mistero per nessuno che le richieste di aiuto si moltiplicano a dismisura e approdano alle porte delle parrocchie, dei centri di ascolto, dei molteplici gruppi, mense, centri di recupero, di integrazione, dispensari e ambulatori. Già nel 2007 avevamo lanciato l’allarme della povertà che avanzava strisciante. E ora siamo nel vortice dell’emergenza che, come un’onda irriducibile e crescente, assedia. Ragion per cui non solo le provvidenze pubbliche, ma anche la continua, generosa raccolta nelle nostre comunità, sono benedette e meritorie seppur mai adeguate ai bisogni, come risulta anche da una recente indagine dal significativo titolo “L’impegno” (Giuseppe Rusconi, L’impegno, come la Chiesa italiana accompagna la società nella vita di ogni giorno, Rubettino, 2013). È la nostra missione e, mentre siamo grati al Signore che ci dà la grazia di poterlo servire nelle sue membra più bisognose, vogliamo ringraziare lo stuolo dei nostri Sacerdoti, dei diaconi, dei religiosi e delle consacrate, e la moltitudine di volontari che si prodigano con fede e ammirevole generosità.  

 

La società al bivio

 

 Come sempre, non possiamo non pensare anche al nostro amato Paese. Tanto più perdurando la gravissima crisi che investe l’Europa e il mondo, e dopo un periodo di non piccoli passaggi istituzionali. A noi Pastori sta a cuore non una formula specifica, ma i princìpi che devono ispirare la vita politica e, più in generale, il vivere sociale. In questo senso, la nostra riflessione tocca i livelli antropologico, etico e culturale, poiché questi sono i fili decisivi che costituiscono il tessuto della società e ne misurano verità e consistenza. Possiamo dire che ne pesano il grado di umanità e di giustizia. 

Una prima considerazione, che si va sempre più imponendo, è la necessità di uscire dai luoghi comuni del pensare e dell’agire. Il conformismo diffuso non aiuta a giudicare le cose con la propria testa. L’anticonformismo auspicato non è smania di apparire originali, fuori dal coro, ma è essere rispettosi della realtà, liberi dal “così fan tutti”. L’andare contro corrente non è facile! Richiede un’ascesi intellettuale fatta di disciplina interiore, fatica per vincere la pigrizia del lasciar andare; ma esige anche un’ascesi morale fatta di coraggio per resistere alle pressioni del pensiero unico che non accetta di essere contraddetto, disponibili a cambiare le proprie abitudini, ad andare contro il proprio tornaconto se la verità lo richiede. Il bene comune, che la buona politica deve avere come valore superiore, pretende la capacità di anteporre all’interesse personale o di parte il bene generale, cioè il bene del Paese. Con la sua missione educativa, la Chiesa offre il proprio contributo affinché, nella contesa ormai universale tra “utilitas” e “veritas”, la verità non soccomba. La categoria dell’utilità, in sé, non è male; ma se diventa un valore assoluto – staccata cioè dalla verità delle cose – allora si snatura e, alla fine, nega se stessa. Parimenti, per la categoria del “potere”: se esso sguscia dal valore del servizio, allora diventa fine a se stesso e si deforma nei suoi volti peggiori. È dunque necessario coltivare il senso e il gusto del vero, specialmente nelle giovani generazioni, che di solito sono più libere rispetto a ideologie, schemi ingessati e interessi individuali.

 

 Una seconda considerazione riguarda il clima di ostinata contrapposizione che, a momenti alterni, si deve registrare tanto a livello privato che pubblico: quando la naturale logica del confronto e della dialettica sale nei toni e nelle parole, quando non arriva mai a conclusioni condivise ma si impunta avvolgendosi su se stessa, quando si cristallizza diventando costume, allora si rischia la patologia che paralizza il vivere sociale. È il segno triste e sconfortante di un modo di pensare vecchio e ripiegato, autoreferenziale e senza futuro. Non è questione di anagrafe, ma di giovinezza dell’anima. Ci si chiede a volte se contano di più la verità e il bene, oppure il pretendere di avere ragione, o meglio l’affermazione del proprio “io” e della propria immagine. Se così fosse, ci sarebbe da interrogarsi sulla propria consistenza interiore.

Le vicende che hanno segnato il nostro Paese sul piano politico e istituzionale devono far riflettere e innescare un serio esame di coscienza: tutti abbiamo bisogno di convertire il cuore e la vita, ma questa generalizzazione non può essere intesa come una sorta di “male comune” assolutorio, specialmente se si portano responsabilità pubbliche. In questi tempi abbiamo visto, ad alti livelli, gesti e disponibilità esemplari che devono ispirare tutti; ma anche situazioni intricate e personalismi che hanno assorbito energie e tempo degni di ben altro impiego, vista la mole e la complessità dei problemi che assillano famiglie, giovani e anziani. Dopo il responso delle urne, i cittadini hanno il diritto che quanti sono stati investiti di responsabilità e onore per servire il Paese, pensino al Paese senza distrazioni, tattiche o strategiche che siano. Pensare alla gente: questa è l’unica cosa seria. Pensarci con grandissimo senso di responsabilità, senza populismi inconcludenti e dannosi, mettendo sul tavolo ognuno le migliori risorse di intelletto, di competenza e di cuore. Allora insieme è possibile. Non bisogna perdere l’opportunità, né disperdere il duro cammino fatto dagli italiani. L’ora è talmente urgente che qualunque intoppo o impuntatura, da qualunque parte provenga, resteranno scritti nella storia. 

 

 Noi Vescovi, a contatto con la gente, abbiamo il dovere di dare voce alle preoccupazioni crescenti e al disagio sociale diffuso, alla moltitudine di giovani che non trovano lavoro, a quanti – anche avanti negli anni ma senza possibilità di pensione – l’hanno perso, a quanti sono in ambascia per l’incertezza del domani, a coloro che oggi sono scesi al livello della povertà e a volte dell’angoscia. Sicuramente, diverse sono le cose importanti da fare per il bene comune, e nessuna di queste è contro le altre, anzi, tutte si richiamano e si sostengono più o meno direttamente. Ma c’è da chiedersi: qual è la lama più dolorosa nella carne della gente? Quella che chiede interventi immediati ed efficaci perché ogni giorno è in gioco il giorno dopo? “Il lavoro – diceva recentemente il Santo Padre – è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci ‘unge’ di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio che ha lavorato e lavora, agisce sempre; dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della Nazione. (…) Desidero rivolgere (…) ai Responsabili della cosa pubblica l’incoraggiamento a fare ogni sforzo per dare nuovo slancio all’occupazione; questo significa preoccuparsi della dignità della persona” (Udienza Generale 1.5.2013). In questa prospettiva, il Papa parla anche di “lavoro schiavo, il lavoro che schiavizza” le persone perché le sottomette a se stesso fino ad alimentare una vera e propria “tratta delle persone” anche ai giorni nostri (cfr. ib.). Affinché il lavoro veramente “unga” di dignità ogni lavoratore, non deve diventare – quando c’è – talmente invasivo da impedire sia il necessario riposo fisico e spirituale, sia la possibilità di coltivare i rapporti con gli altri, tenendo conto che i primi rapporti sono quelli della famiglia. È del tutto evidente che il lavoro domenicale impedisce che la famiglia si ritrovi unita in un tempo disteso e comune da dedicare a se stessa, agli altri e, se credente, a Dio e alla comunità cristiana. Considerare ciò di poco conto, magari con la giustificazione di lasciare il lavoro festivo come un’opzione, significa sottomettere la persona all’economia – senza peraltro evidenti vantaggi – con danni incalcolabili per la tenuta della società intera.    

Le statistiche pubbliche sul lavoro e l’occupazione sono eloquenti e non ammettono repliche. È vero che continuano ad esserci settori produttivi che tengono o sono addirittura fiorenti, ma sono delle nicchie rispetto all’insieme. Come emerge nel recente Rapporto-proposta sul lavoro –elaborato dal Progetto Culturale della CEI – siamo convinti che è possibile superare la crisi  con un forte e deciso piano industriale che, tenendo in casa il patrimonio e la professionalità italiana, rilanci con tenacia la produzione nazionale insieme alla necessaria attenzione finanziaria. Così che, dicono gli esperti, la macchina si metta nuovamente in moto. Circa le pesanti politiche fiscali ci chiediamo: fino a quando potranno raccogliere risorse se tutto rallenta?

 

 Così la famiglia – patrimonio incomparabile dell’umanità – che ancora una volta ha dato prova di sé rivelandosi il primo e principale presidio non solo della vita, ma anche di energie morali e di tenuta sociale ed economica: fino a quando potrà resistere senza politiche  consistenti, incisive e immediate? Essa è un bene universale e demolirla è un crimine; affonda le sue radici nell’essere dell’uomo e della donna, e i figli sono soggetto di diritto da cui nessuno può prescindere. La famiglia non può essere umiliata e indebolita da rappresentazioni similari che in modo felpato costituiscono un vulnus progressivo alla sua specifica identità, e che non sono necessarie per tutelare diritti individuali in larga misura già garantiti dall’ordinamento. Il grave problema demografico – che in alcuni Paesi europei è stato affrontato con buoni risultati – quando sarà preso in seria considerazione senza rimandi o depistaggi che nulla hanno a che fare con le urgenze reali? Viene da chiedersi se la possibilità di futuro valga ancora nella sensibilità pubblica: la capacità di affrontare il presente con gli occhi del futuro disegna il volto dei veri statisti. La prossima Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, che si celebrerà a Torino dal 12 al 15 settembre prossimo, avrà come tema la famiglia. Confidiamo – e questa è l’intenzione della Chiesa in Italia – che possa essere un ulteriore contributo per l’intera società e le sue prospettive culturali, politiche, educative e sociali.        

 

 Dobbiamo riconoscere che, per guardare a un futuro migliore, è necessaria anche una sorta di bonifica culturale al fine di discernere le categorie concettuali e morali che descrivono o deformano l’alfabeto dell’umano, con i suoi fondamentali come la persona, la vita e l’amore, la coppia e la famiglia, il matrimonio e la libertà educativa, la giustizia. È da questa attenzione di tipo antropologico che dipende la possibilità di una società umana o, al contrario, di un coacervo che sarà disumano e spietato. Quando il pensiero unico, con la complicità di risorse e strumenti, non riconosce la sacralità della persona – di ogni persona comunque – allora si è entrati nella fase della decadenza. Al fondo di una certa cultura individualistica non vi è il rispetto della persona, ma la volontà di distruggere l’uomo nella sua dignità, di delegittimarlo nelle sue manifestazioni personali e sociali, per farne un soggetto smarrito e incerto, prigioniero di se stesso, facile preda di chi è più forte e scaltro. Snaturato della sua dignità sacra, l’uomo viene sottomesso all’economia. È forse utile ricordare che la parola “sacralità” non rimanda esclusivamente a Dio. Essa mantiene la sua legittimità in quanto indica qualcosa che ci precede, che è indisponibile, e che l’esperienza personale attesta. Quando qualcuno, infatti, sente rivolte a sé queste parole – “tu non mi interessi” – avverte, senza necessità di argomenti, che è stato commesso un crimine morale contro di lui, che la giustizia è stata violata e l’universo è più buio. La voce della Chiesa non potrà mai tacere quando ci si pone sul piano dell’uomo. Incisivo, al riguardo, è quanto scrisse l’allora Card. Bergoglio parlando del rapporto della Chiesa con la politica: “L’importante è non mettersi nella politica di parte, ma nella grande politica che nasce dai Comandamenti e dal Vangelo. Denunciare le violazioni dei diritti umani, le situazioni di sfruttamento o esclusione, le carenze educative e alimentari non significa essere di parte (…). Quando parliamo, alcuni ci accusano di fare politica. Io gli rispondo: sì, facciamo politica nel senso evangelico della parola, ma non siamo di parte” (Il nuovo Papa si racconta,Salani, 2013, pag.79). 

 

 In questa prospettiva, la società nel suo insieme non deve mai assuefarsi alle diverse forme di evasione che degradano e distruggono i suoi figli a vantaggio di pochi profittatori senza scrupoli. Il nostro pensiero ritorna sul gioco d’azzardo che divora giovani, anziani e famiglie; come sulla smania mortale di sfide e di brivido estremo, che manifesta non coraggio, ma il devastante vuoto interiore che genera spregio della vita propria e altrui. E la ricorrente violenza sulle donne a cui assistiamo con raccapriccio, non indica a sua volta il deserto di quei valori spirituali e morali così spesso denigrati o derisi come merce vecchia da buttare in soffitta? È anche questo il frutto della conclamata libertà individuale senza limiti e regole, sufficiente a se stessa, trasformata in libertarismo etico? Il fantasma del nichilismo, del quale Nietzsche fu profeta, continuerà a materializzarsi fino a quando la società intera non avrà una scossa positiva. Sì, la società contemporanea è al bivio! Non solo le singole coscienze sono chiamate a un risveglio, ma anche la coscienza collettiva deve scuotersi dal torpore etico-spirituale che genera un modo di pensare talmente fluido che le emozioni individuali diventano l’unica realtà, fino a sovrastare la vita degli altri in forme violente, come purtroppo si assiste anche nelle strade delle nostre città: “È il primato dell’individuo e dei suoi diritti sulla dimensione che vede l’uomo come un essere in relazione. È l’individualizzazione autoreferenziale; è il dominio dell’ ‘io penso, io ritengo, io credo’ al di sopra della stessa realtà, dei parametri morali, dei riferimenti normativi, per non parlare dei precetti di ordine religioso” (J. M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, Jaca Book, 2013, pag. 35). È l’ora di una grande alleanza educativa che proponga, come ho già detto, il gusto della verità e del bene, la capacità di conoscere se stessi, la bellezza delle relazioni. Nell’orizzonte di tale sfida, ancora una volta chiediamo che si riconosca concretamente il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni. Sempre di più, invece, sono costretti a rinunciare sotto la pressione della crisi e la persistente latitanza dello Stato. Il Laboratorio nazionale di studio, promosso dai Vescovi per i Responsabili degli Uffici diocesani della Scuola nonché delle Scuole Cattoliche, ha avuto un grande risposta. A Dio piacendo, seguirà nel prossimo anno un raduno di popolo.

 

 Per la verità, noi Pastori abbiamo la grazia di essere testimoni anche di un’altra realtà, la maggioritaria: quella di tanta gente semplice e umile che non ama schiamazzi e ribalte, che è dedita ai propri doveri quotidiani in famiglia, nella fedeltà agli affetti, a scuola e nel lavoro, nella comunità cristiana e nella società. Questa moltitudine è sana, seria e generosa. Ha il senso della vita reale non romanzata. Costoro fanno la gloria dell’Italia, e sono il nerbo portante del Paese, contenti di fare il proprio dovere con onestà e molto spesso con fede genuina. Questo popolo, l’Italia l’ha visto recentemente in una tragedia che ha colpito l’anima della Nazione proprio nel porto della mia Genova. Il fatto è noto, forse meno la dignità, la forza e la fede dei familiari delle vittime – militari e civili – di tanti giovani amici e colleghi, che mi hanno confidato parole e sentimenti, pensieri e propositi che sono frutto commovente di una fede essenziale e radicata. A tutti loro va il nostro riverente pensiero, l’affettuosa ammirazione e la preghiera; così come la gratitudine di Genova va al Paese intero che ha mostrato solidarietà e vicinanza.

 

Il popolo della vita

 

 L’urgenza di superare la crisi economica non deve far dimenticare il fronte delicatissimo e fondativo della vita umana. È, questo, un campo non solo sempre aperto, ma anche esposto a derive ulteriori. È doverosa la continua, attiva attenzione della comunità cristiana e di quanti – non sono pochi – riconoscono l’evidenza della vita umana in tutti i suoi momenti e forme; tanto più bisognosa di tutela e di cura quanto più è debole e indifesa. Per questa ragione i Vescovi italiani hanno aderito con ferma convinzione all’iniziativa dei Movimenti per la Vita che sono in Europa al fine di una significativa raccolta di firme, perché le Istituzioni Europee riconoscano in pieno lo “Statuto dell’embrione” e sospendano ogni finanziamento finalizzato alla sperimentazione sugli embrioni umani. Salutando i partecipanti alla recente “Marcia per la vita”, il Papa aggiungeva: “Mi piace ricordare anche la raccolta di firme che oggi si tiene in molte parrocchie italiane al fine di sostenere l’iniziativa europea ‘Uno di noi’, per garantire protezione giuridica all’embrione, tutelando ogni essere umano sin dal primo istante della sua esistenza” (Regina coeli, 12.5.2013).

L’Europa è la terra dove il cristianesimo è fiorito generando quell’umanesimo plenario di cui tutto il mondo gode, ma che si vorrebbe ostinatamente separare dalla linfa vitale del Vangelo. La recente raccomandazione che la Corte dei diritti umani a Strasburgo ha fatto circa il diritto al suicidio assistito, è l’ulteriore prova del progetto di una società senza relazioni, dove ognuno – in nome dell’autodeterminazione individuale – si trova solo. Il no all’eutanasia e al suicidio assistito – e con raccapriccio sentiamo che qua e là si parla anche di infanticidio – è un grande sì alla vita e all’amore. Come già osservato in molte occasioni, il dolore e la sofferenza che bussano alla porta di ciascuno, sono un appello alla società intera perché si mostri per quello che deve essere: una comunità di vita e di destino nella quale nessuno si trova abbandonato a se stesso, ma preso in cura, sostenuto con la vicinanza dell’amore. Impedire il cancro della solitudine è la prima e fondamentale risposta che una società deve dare alla sofferenza dei suoi membri. La paura più devastante, infatti, scaturisce dalla solitudine e dall’abbandono, mentre l’atteggiamento d’amore trova vie misteriose per farsi percepire e saper medicare. La vita non è solo un bene per ciascuno, ma anche – in misura – un bene che concorre al tesoro comune (cfr Costituzione della Repubblica Italiana, art. 32). E tutto questo non partecipa in modo significativo alla “qualità della vita”? Proprio perché i discepoli di Gesù non possono essere “cristiani da salotto” (cfr Papa Francesco, Udienza Generale, 15.5.2013), le nostre comunità devono crescere in una fede capace di farsi giudizio chiaro, proposta concreta e presenza decisa dentro alle sfide del nostro tempo.  

 

La cultura della vita ci fa allargare lo sguardo sul resto del mondo dove non possiamo tacere le precarie situazioni in cui vivono fratelli e popoli a causa di calamità o conflitti. Così come non possiamo dimenticare le continue, gravi violazioni dei diritti umani in molte parti del pianeta. Ci riferiamo innanzitutto alla continua persecuzione contro i cristiani: prosegue inarrestabile sotto lo sguardo distratto dell’Occidente in Pakistan, dove Asia Bibi è segregata in carcere da 1.400 giorni per il solo fatto di essere cristiana; e poi in Nigeria e altrove. Nel firmamento dei Santi, recentemente si sono accese le ottocento luci dei martiri di Otranto, grazia attesa per tutta la Chiesa in Italia. Così si esprimeva il Santo Padre: “Mentre veneriamo i Martiri di Otranto, chiediamo a Dio di sostenere tanti cristiani che, proprio in questi tempi e in tante parti del mondo, ancora soffrono violenze, e dia loro il coraggio della fedeltà e di rispondere al male col bene” (Omelia, 12.5.2013).

Esprimiamo altresì la nostra fraterna vicinanza ai due Vescovi ortodossi in mano ai ribelli in Siria, dove anche risulta disperso un giornalista de La Stampa: mentre assicuriamo la nostra preghiera, auspichiamo che possano ritornare subito in libertà e che la situazione del Paese trovi presto la soluzione più giusta ed equa. Invochiamo pure il dono della pace nei Paesi del Maghreb, della Somalia e del Sahel, dove i conflitti sono aggravati dalla siccità e dalla carestia. L’organizzazione internazionale della FAO recentemente ha rivelato che nel Sahel nello scorso anno 260.000 persone sono morte di stenti, e la metà erano bambini. Com’è noto, nuovi focolai di instabilità si sono accesi nel pianeta: se da una parte non si deve spegnere la fiducia e cedere al pessimismo, dall’altra non cessiamo di pregare Cristo, Principe della Pace perché ispiri ai Responsabili e ai popoli pensieri di dialogo e di giustizia. 

Tornando nella nostra Italia, le Chiese del nostro meridione continuano intrepide la loro lotta per la vita, che vuol dire anche “cultura della legalità”. È una missione faticosa e irta di ostacoli, osteggiata dalla malavita che continua a lucrare sulle difficoltà di quelle splendide terre. Addirittura, vorrebbe espandere i loro tentacoli nel vissuto del popolo cristiano con le sue tradizioni. Ma incontra presenze ferme e coraggiose! Vogliamo confermare la nostra viva ammirazione e la convinta adesione ai Confratelli impegnati in prima linea e, in questo momento, in modo particolare alla Diocesi di Locri-Gerace, al suo Pastore e all’intrepido Parroco recentemente preso di mira da forze criminali. L’intero Episcopato si rallegra, infine, per l’imminente beatificazione di don Pino Puglisi, dell’arcidiocesi di Palermo, grande educatore e coraggioso testimone della fede fino al sacrificio della vita.

 

Cari Confratelli, è di qualche giorno fa la notizia del viaggio del Santo Padre a Cagliari per visitare il santuario della Madonna di Bonaria, legata in modo speciale a Buenos Aires. Ne siamo lieti per quella Comunità e per il suo Pastore: insieme con lui vogliamo ringraziare Papa Francesco, e in questo pellegrinaggio vedere, oltre il suo filiale amore per la Santa Vergine, anche un particolare segno di legame e di affetto per questa nostra amata Terra che, per disegno della divina Provvidenza, è ormai diventata sua a titolo speciale. Nell’anno, infine, nel quale si celebra il millesettecentesimo anniversario dello storico Editto di Milano, la visita del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, all’Arcivescovo della Chiesa Ambrosiana, Cardinale Angelo Scola, è un ulteriore segno di quel cammino ecumenico fatto di preghiera, parola e gesti, che tanto è al cuore della cristianità.

Mentre vi ringrazio per il vostro benevolo ascolto e in attesa della consueta riflessione collegiale, affidiamo il nostro popolo alla luce calda dello Spirito. Sia Lui a guidare i nostri lavori in quell’affetto reciproco che nasce dall’amore di Cristo e plasma la nostra umanità di credenti e di Pastori. La Vergine Santissima e San Giuseppe veglino su tutti noi.