Ieri l’altro a Busto Arsizio una donna, depressa, appena uscita dall’ospedale dove aveva ricevute cure psichiatriche, ha approfittato del fatto che il marito fosse a fare la spesa. 

Sua madre, la nonna anziana, era in cucina, a preparare il pranzo perché si approssimava il mezzogiorno.

Allora ha gettato i figli di tre e sei anni giù dal balcone del terzo piano; sono caduti da otto metri, su un tavolino di plastica bianco. Salvi, dicono i medici, fuori pericolo. E lei invece confessa: “Lo ho fatto per il loro bene, spero che muoiano”.



Ho letto i commenti della gente sotto l’articolo telematico del Corriere, una settantina.

Ci sono davvero tanti stupidi in giro. Stupidi, sì, insipidi e ariosi.

Di fronte a fatti del genere credo bisogna tirare un grande respiro e tacere.

Respirare, in onore alla vita che ci tiene; tacere, per rispetto.

A me è stato chiesto di scrivere qualche riga a tal proposito e lo faccio con titubanza ve lo confesso. È pur vero che per scrivere ci vuole silenzio, ma non esistono commenti adeguati.



La donna ha detto di non sentirsi “adeguata come madre”; e questo le causava un senso tale di insostenibilità che si è sentita costretta a compiere un atto inconsulto. Senza senno.

Vorrei lasciare questa donna al suo gesto, al suo dolore; alle cure che merita.

Perché su molte cose noi possiamo dissentire, sul fatto che si possa o meno perdonarla, oppure sulla sua coscienza, sulla sua condanna.

Ma non possiamo certo mettere in dubbio il fatto che lei avesse la mente obnubilata; che fosse magari oppressa da una malattia mentale, magari solo una grande e potente depressione.

Su questo abbiamo la conferma che era in cura, anzi, uscita l’11 maggio da un ospedale.



Possiamo discutere sulla adeguatezza di queste cure, dei farmaci; possiamo immaginare la costernazione dei sanitari che l’hanno dimessa (se non l’avessero fatto… chissà) o il loro senso di colpa, la responsabilità, anche solo presunta.

Possiamo mettere un sacco di “se” o di “ma” davanti a noi e non cambiare quello che è stato.

Onestamente, ci rimane solo di metterci davanti a quella che si chiama “malattia mentale” e guardarla in faccia.

Lo sappiamo che è stato un gesto dettato dal male.

Allora, fermiamoci e guardiamo in faccia questo male.

In questi tempi ci sono molti modi in cui si manifesta: con un volo dalla finestra, a colpi di piccone all’alba, con il coltello o il fucile, dentro case comuni.

Gli uomini muoiono, gli uomini ammazzano.

Gli uomini sono solo uomini; possono ammalarsi, essere capaci di male, di qualsiasi sesso siano.

Età, condizione sociale. 

Abbiamo la decenza di non crederci onnipotenti o indenni.

Smettiamola di parlare di colpe e di colpevoli; incominciamo a sperare.

Magari neanche nella vera e propria, definitiva guarigione; a volte non è possibile. 

Nemmeno nella Speranza, quella con la esse maiuscola, così, solo perché la speranza è l’unica salvezza, è l’ultima a morire.

Incominciamo a sperare con ragione. Con la ragione.

Qualcuno è venuto a sconfiggere il male. Qualcuno che “arrivava a sera stanco di guarire”. 

Per piacere, smettiamola di giudicare; mettiamoci a ascoltare il rumore dell’erba che cresce, come ci disse Ungaretti. Smettiamola di uccidere i morti.

Prendiamoci cura dei nostri pazzi, i malati di mente, i perseguitati dal male mentale (che sono anche  i familiari, i vicini, gli inconsapevoli passanti).

Per piacere, cominciamo a amarli. Non serve capirli, né sentenziare, solo ragionare.

Non scarichiamoli in case private, a carico di chissachi, non rinchiudiamoli in gabbie, di ferro o chimiche.

Per piacere. Dividiamoci il male: un pezzo per uno, diventa leggero, persino portabile.

Solo Dio libera dal male: noi possiamo offrirglieLo, un boccone alla volta, in regalo.