Il carcere non può essere più “l’unica soluzione possibile” solo perché lo Stato “non è in grado di trovarne di altre. E’ per questo motivo che, davanti alla commissione Giustizia del Senato, il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ha avanzato diverse proposte. Tra queste, quella di limitare la reclusione “ai soli reati più gravi” e di intervenire “valutando tutte soluzioni alternative”, a cominciare da “nuove pene detentive non carcerarie”, ad esempio la sospensione del processo o la messa alla prova, la riforma della contumacia e in particolare “un percorso di decriminalizzazione”. Abbiamo analizzato le parole del ministro insieme a Guido Brambilla, magistrato di sorveglianza di Milano.



Il ministro Cancellieri ha detto che “le priorità sono quelle per cui siamo carenti nei confronti dell’Europa, come le carceri e la giustizia civile”. Cosa ne pensa?

Alcuni tribunali di sorveglianza italiani, tra i quali anche quello di Milano, sono giunti a sottoporre alla Corte costituzionale, nell’assenza di attuali soluzioni legislative, il vaglio di legittimità dell’articolo 147 del codice penale nella parte in cui non prevede, oltre ai casi ivi espressamente contemplati, l’ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità, per violazione degli articoli 27, comma 3, 117, comma 1 ( nella parte in cui recepisce l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo del 4 novembre 1950), 2 e 3 della Costituzione. Il problema, quindi, non è più differibile.



Quanto alla giustizia civile?

Penso che si tratti di altra questione improcastinabile, non solo per consentire una più sollecita soddisfazione delle legittime rivendicazioni dei privati cittadini, ma anche perché, nell’attuale quadro di grave crisi economica che sta attraversando l’Italia, le lentezze, se non la paralisi, dei contenziosi civili, inibiscono l’attrazione di investimenti stranieri. Il mio pensiero, comunque, sia in materia penale che civile, è quello di uscire dall’autarchia del processo ordinario, accreditando nuove agenzie per la soluzione dei conflitti sociali.

Al momento la Cancellieri sembra non voler toccare temi sensibili, come una nuova anti-corruzione (come vorrebbe il Pd) o una riforma delle intercettazioni, come chiede invece il Pdl. E’ solo un motivo politico o effettivamente non sono riforme così urgenti? Quali tra le due è più necessaria secondo lei?



La normativa che reprime la corruzione e quella che disciplina le intercettazioni telefoniche esistono già. Penso però, con riguardo alla corruzione, che l’ampliamento o modifica del momento repressivo non costituisca, di per sé, la soluzione del problema – quando è endemico in un sistema sociale – perché diventa inevitabilmente una questione di vasta portata culturale e politica che va affrontata, per non generare conseguenze deleterie sulla comunità tutta, nella pluralità dei suoi diversi fattori genetici. Occorre un dibattito serio sul fenomeno prima di intervenire con manovre correttive  di tipo sanzionatorio.

Idem per le intercettazioni telefoniche? 

Sì. E’ indiscutibile che se ne debba fare un uso accorto e finalizzato esclusivamente alla ricerca della prova, anche perché, poi, i costi delle stesse finiscono per gravare sui contribuenti. Detto ciò, tuttavia, il problema delle intercettazioni come necessario strumento investigativo va distinto da quello, certamente stigmatizzabile, dell’uso mass-mediatico delle stesse. Qui sì, a mio parere, dovrebbero porsi urgentemente dei paletti legislativi per evitare il dilagare di “gogne” gratuite prima dell’accertamento, auspicabilmente sereno e discreto, di una verità processuale.

 

Il fatto di affrontare l’emergenza carceri è legato esclusivamente all’assenza di risorse?

Il problema del sovraffollamento carcerario, già adesso, oltre che una drammatica questione umanitaria, costituisce una non trascurabile fonte di spesa per lo Stato e, quindi, per il cittadino. Ogni detenuto ha un costo: per il suo mantenimento, la sua assistenza sanitaria e la sua rieducazione, nei vari livelli in cui si struttura il trattamento penitenziario. Costruire più carceri non risolve il problema, lo amplifica. La questione è: il carcere è l’unico rimedio praticabile per garantire sicurezza con riguardo a tutti i livelli di devianza o pericolosità sociale? Solo i soggetti a rischio di recidiva di comportamenti etero-aggressivi o non altrimenti rieducabili potrebbero trovare, in un carcere adeguatamente strutturato, un ultima possibilità di emenda e di recupero con contestuale tutela della collettività. Negli altri casi, punizione e risocializzazione dovrebbero trovare altri “asset” risolutivi.

 

Quali sono gli altri snodi del sistema giudiziario che occorre affrontare per imprimere una svolta all’emergenza delle carceri con probabilità di successo?

Innanzitutto mi sembra necessario un provvedimento di clemenza. L’amnistia (o l’indulto) “resettando” il sistema penitenziario e giudiziario, lo porterebbe a livelli di tolleranza. Ma per evitare il ripetersi di situazioni cicliche (non più auspicabili), occorrerebbe un contestuale potenziamento delle misure alternative e dei lavori socialmente utili. Io troverei più pratica ed elastica l’istituzione di un’unica, significativa, misura alternativa (in luogo delle diverse oggi esistenti), sul modello dell’affidamento in prova (una vera e propria “pena comunitaria”), con limiti pena più ampliati rispetto al presente ed adattabile caso per caso, attraverso l’adozione di idonee prescrizioni, alla singola posizione del condannato. Ed anzi, onde evitare la sequenza “indagini – processo – appello – cassazione – esecuzione penale – fase di sorveglianza”, sequenza lunga e dispendiosa (oltre che spesso inefficace anche in termini  di effettività sanzionatoria), auspicherei una “diversion” delle sinergie processuali. Da un lato il processo penale ordinario, per i reati  sanzionati con pene più elevate. Dall’altro un processo orientato fin dall’inizio alla misura alternativa, più snello ed integrato con la partecipazione di esperti e delle varie agenzie del territorio (Uepe, Sert, Cps, Servizi sociali dei Comuni, ecc..) che possono sin da subito organizzare un progetto di reinclusione sociale, ora riservato solo alla fine di un lungo percorso processuale.

 

Secondo il ministro andrebbe approvato il ddl Severino sulle pene alternative: “la reclusione va limitata ai soli reati gravi, introducendo la detenzione domiciliare come sanzione autonoma e i lavori di pubblica utilità”. Cosa ne pensa? 

Come dicevo, la detenzione domiciliare è una misura alternativa contenitiva, tuttavia poco efficace in termini rieducativi, a meno che non si trasformi, prima o poi, attraverso la modulazione delle prescrizioni, l’intervento di fattori esterni di sostegno, o l’ammissione al lavoro del condannato, in una forma spuria di affidamento in prova.

 

Che cosa produrrebbe un eventuale rinvio delle priorità indicate dal ministro?

Non posso prevederlo. Certo degli elevati costi umani, sociali ed economici. La priorità vera, però, a mio vedere, è che la società, prima ancora della politica (cui si demanda sempre tutto) cominci a reinterrogarsi sui fondamenti della giustizia e del diritto di punire. Sono domande oggi da reimpostare culturalmente, tenuto conto della crisi dello Stato moderno, del formarsi di Entità sovranazionali e del loro rapporto con la persona, singolarmente intesa e nelle forme comunitarie ove essa vive ed esprime la propria personalità e le sue esigenze fondamentali.

 

Il programma del ministro parte però dai famosi tribunalini, dal loro taglio. E’ d’accordo?

L’accentramento della giustizia, con l’eliminazione di sedi periferiche comporterebbe dei risparmi economici. Ma, a mio avviso, allontanerebbe ancor di più la giustizia dal territorio e quindi dalla sua conoscenza, dal rapporto vivo con la gente. Così è già stato, ad esempio, per molte stazioni dei Carabinieri, ormai soppresse, che molto avevano contribuito, in passato, a fare da “utile filtro conciliativo” tra le istanze del cittadino e la macchina giudiziaria. La storia della giustizia italiana è passata dalle Preture dei piccoli mandamenti. Andiamo verso una digitalizzazione della giustizia, più organizzata e meno costosa, ma perdiamo, forse, il meglio dell’umanità della stessa.

 

Alla luce della sua conoscenza del problema, cosa pensa della proposta Kyenge di abolizione del reati di immigrazione clandestina?

Posso solo dire, al riguardo, che la risposta in termini sanzionatori-espulsivi in tema di immigrazione clandestina, al momento, non ha dato buona prova. Penso tuttavia che occorra prima chiarire a livello europeo (perché di questione sovranazionale si tratta), che tipo di politica condivisa si intenda attuare per favorire o meno l’immigrazione e l’integrazione dei cittadini extracomunitari, che tipo di interventi solidali si intendono attuare nei loro confronti, in che misura farli partecipare alla formazione del consenso politico e, una volta attuata (o nel mentre si attui) una politica programmatica di accoglienza, come affrontare il problema della relativa devianza. Non penso perciò ad una soluzione solo italiana.

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