Erano trascorsi appena 128 giorni dal grido di Papa Wojtyla ad Agrigento contro la mafia che calpesta, coi suoi crimini, “il diritto santissimo di Dio” quando, il 15 settembre 1993, nella sua Brancaccio, venne assassinato don Pino Puglisi. Di quel parroco pochi avevano sentito parlare prima di quel giorno. A lui l’antimafia ufficiale, quella dei cortei della legalità e delle auto blindate con scorta, non aveva assegnato – come oggi ricorda un magistrato che fu suo discepolo – neanche la patente di “antimafioso ordinario”. Eppure Cosa Nostra colpì proprio don Pino, il parroco di Brancaccio, perché sapeva pesare i propri nemici.
Nel maggio del 1993, con l’anatema di Giovanni Paolo II c’era stata una svolta nella posizione della Chiesa nei confronti della mafia. Non più i silenzi dei decenni precedenti, ma neanche le supplenze indebite degli organi dello Stato. Con la netta presa di posizione del Papa polacco fu chiaro che i mafiosi non avrebbero più potuto usare a proprio piacimento i comandamenti di Dio e i riti religiosi.
Per i boss era naturale lo scontro con lo Stato, perché faceva parte di una guerra fra due poteri. La mafia è l’antistato, perciò ci stava la battaglia coi giudici e con gli apparati di polizia. Ma essa aveva bisogno che il popolo stesse dalla propria parte, magari per paura, e che la Chiesa rimanesse neutrale, chiusa nel recinto del sacro. In cambio i mafiosi si mostravano solerti difensori dei valori della fede e sponsor delle feste religiose. Che qualcuno dei preti più irruenti o intellettuali si atteggiasse a paladino dell’antimafia non impauriva i boss, faceva parte del gioco.
Ma con il grido di Agrigento qualcosa si ruppe nel rapporto fra Chiesa e mafia e all’interno stesso della Chiesa. Da allora fu chiaro che la mafia era un tradimento di Dio, che non si poteva appartenere alla Chiesa e, allo stesso tempo, a un clan, non si poteva giurare fedeltà al boss e stare dalla parte di Dio. La mafia capì la pericolosità di questa cesura e colpì una figura simbolo, un prete che predicava il Vangelo e che con la sua azione pastorale ed educativa levava manovalanza alle cosche. La morte di don Puglisi fu un esempio di martirio cristiano. Ed è di grande significato che la Chiesa nel beatificarlo usi una categoria, quella del martirio, che ci riporta ai primi tempi della cristianità.



Don Puglisi è stato un martire. Come gli eroi Falcone e Borsellino, qualcuno potrebbe dire. Ma lui fu ucciso proprio per la sua fede in Gesù Cristo, non nei codici o nello Stato. Sarà ricordato come martire della giustizia, perché in fedeltà a Cristo morì anche per la giustizia, ma resta anzitutto un martire della testimonianza di Cristo.
Il segno della santità è che la presenza del santo non viene sminuita dalla sua morte, anzi essa continua a crescere e a manifestarsi nella storia. Come è accaduto a padre Puglisi, nel 1993 oscuro parroco di Brancaccio, da domani beato della Chiesa universale. Quanti giovani e quanti mafiosi in forza del suo esempio e del sangue da lui versato hanno cambiato vita! Questo è il miracolo di don Pino che si rinnova oggi nella Sicilia della crisi disperata. Nel deserto del male e della povertà spunta un fiore di speranza che dice a tutti la possibilità di un cambiamento. Ora.

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