La madre eroina ha sfidato gli assassini di Londra. La signora Ingrid Loyau-Kennett ha visto il sangue, sentito le grida di terrore, è scesa dall’autobus e si è parata davanti ai criminali con le mani lorde chiedendo un perché, e chiedendo di consegnare le armi. Che coraggio, indubbiamente. Questo la rende eroica: aver tentato di fermare un altro omicidio, chissà; aver provato a prender tempo, per fermare quei folli in modo da favorire l’arrivo delle forze dell’ordine. 



Se però me la fanno eroina perché ha comunque tentato un dialogo, e  magari cercato di capire le ragioni di quegli uomini “sconvolti”, parole sue, capisco un po’ meno. Non so, per fortuna non c’ero, e tendenzialmente mi fido pochissimo delle ricostruzioni di cronaca. Credo che io non mi sarei fermata, e fermandomi, nel caso, sarei rimasta paralizzata dall’orrore, incapace di emettere un grido pur strozzato. Oppure mi sarei piegata a pregare e piangere su quel corpo palpitante per via, se avessi avuto davvero coraggio. Oppure, per la rabbia e la disperazione, avrei compiuto qualche gesto insano, ma solo per la mia incolumità, tipo investirli con la mia auto a tutta velocità, tipo tirare addosso la prima arma contundente, col desiderio che fosse una pistola da scaricare. 



Ecco, l’ho detto, scorrettamente l’ho detto. Ci vuole un grande amore per l’uomo, un’infinita misericordia cristiana, un’incrollabile fiducia nella giustizia per non desiderare, d’istinto, la morte immediata di quei due disgraziati. Ma poiché non siamo santi, e non abbiamo affatto idea che i processi rendano davvero giustizia, solo il disgusto per tanta bestialità ci trattiene dal volere, all’immediato, l’identica terribile fine. Perché non vogliamo essere pari a loro. Si può pensare che un uomo si redima, espii una colpa tanto efferata? Non era la fame, a muoverla. Non la pazzia, nel senso di patologia mentale riconosciuta. Non la paura di vedersi assediati da thank nemici, bombe al napalm e mitra puntati nell’incendio della propria casa. Forse una di queste condizioni,  o la vista di un figlio straziato avrebbero potuto annebbiare il cervello, ridurre gli uomini ad animali e scatenare tanta assurda voglia di mattanza. Non erano neppure drogati, ci conferma la madre eroina, che con occhio clinico si è presa anche il tempo per stabilirlo, fatte due chiacchiere. 



Ripeto, non ero lì, e credo che quella donna abbia arditamente tentato di frapporre se stessa assumendo su di sé la rabbia, per assorbirla, per placare, se si può placare una fiera insanguinata. Ma non salti fuori la parola capire, o dialogo. Rabbia, e orgoglio, quelle sì. 

Rabbia, incommensurabile rabbia, e orgoglio, per una diversità che non vogliamo più nascondere, per una cultura di vita, non di morte, che ci è cara e per cui vale la pena perfino combattere. Il meno possibile, ma alle volte ci vuole. Perché non c’è giustificazione o vendetta o odio storico che tenga, non c’è precetto che possa contemplare lo sgozzamento per strada, per le nostre strade, di un uomo colpevole di essere bianco, di essere un soldato al servizio del suo paese, di esserne fiero. 

Se quella donna è riuscita ad evitare ulteriori stragi, in un momento in cui i bambini stavano uscendo da scuola, Dio e il paese intero le rendano merito, e lode allo scoutismo che l’ha formata. Ma poi per fortuna è arrivata la polizia, che ha sparato. Prima naturalmente che gli assassini sparassero alla polizia, contro cui si sono avventati con pistole e con le stesse lame insozzate dall’innocente. Non venga fuori mai, sul blog più diserto, le parole “cercare di capire” e “pietà”. La pietà davanti a un ragazzo decapitato mentre passeggiava fischiettando non è da noi. Ci pensi un Dio, ma per chi sarà mai l’Inferno, se non per costoro?