“Tra i nostri martiri noi ricordiamo i martiri della fede e i martiri della giustizia: sia gli uni che gli altri sono parte che costituisce la nostra fede cristiana perché se non c’è la giustizia non è fede”. A dire così è padre Antonio Loffredo, conosciuto come “il don dei ragazzi della Sanità”. La “Sanità” è l’omonimo rione di Napoli dove la malavita, soprattutto giovanile, ha da sempre reso tristemente conosciuto questo quartiere del capoluogo campano. Parlando della beatificazione di don Pino Puglisi, sacerdote ucciso dalla mafia, padre Antonio sottolinea come non si diventa sacerdoti per combattere qualcuno, neanche la criminalità: “Io non ho mai pensato di fare il prete per combattere qualcuno ma per fare il bene, per servire il prossimo” ha detto in una conversazione con ilsussidiario.net. Padre Antonio è conosciuto per il suo impegno, caratterizzato dall’interesse per l’arte e la cultura a cui indirizza i giovani, tanto da aver reso di nuovo agibili le Catacombe di san Gennaro. Il suo motto è questo: “La Bellezza può guarire l’uomo”. Proprio in questi giorni esce un libro che documenta tutto questo, edito da Mondadori: “Noi del Rione Sanità. La scommessa di un parroco e dei suoi ragazzi”.



Si sente talvolta sottolineare l’impegno positivo di sacerdoti come don Pino Puglisi e criticare invece la Chiesa nel suo complesso, che non avrebbe fatto abbastanza per combattere la criminalità organizzata…
Preferirei metterla in questo modo. Ricordiamo sempre che tra i nostri martiri ci sono i martiri della fede e i martiri della giustizia, sia gli uni che gli altri sono parte che costituisce la nostra fede. Se non c’è giustizia al suo interno, che fede vogliamo che sia?



Dunque cosa significa l’impegno contro la criminalità per un cristiano?
Don Pino viene beatificato perché martire della giustizia, quindi servitore di altissimo valore che fa parte della nostra fede. Non è estraneo alla fede che persone che operano nella giustizia siano beatificate.

Ci spieghi meglio queste sue parole.
Io ho un pensiero costantemente chiaro in mente: noi cristiani non combattiamo, neanche la criminalità. Noi cerchiamo di costruire nelle persone la speranza di un mondo più bello. Poi ci sono quelli che io chiamo gli effetti collaterali, che sono la lotta a qualcosa.



Cosa intende esattamente per effetti collaterali?
Le spiego. Non ho mai pensato di fare il prete per combattere qualcuno ma per fare il bene, per servire il prossimo. In questo senso sono convinto che anche don Pino Puglisi si sia fatto prete per servire le persone. Che poi nel suo servirle spesso si possa creare qualche problema a qualcuno, questo problema appartiene a queste persone, non a chi è servitore. Non siamo un esercito per distruggere qualcuno: noi siamo dei servitori.

Lei è noto per la sua opera nel Rione Sanità di Napoli: ci può dire come si svolge?
La nostra realtà è un po’ diversa da quella in cui operava don Pino. Abbiamo bisogni simili, ma partiamo da altri presupposti.

Ci spieghi…
Ad esempio i bisogni della povertà. La ricerca di un cambiamento culturale è la stessa dovunque ci sia maggiore degrado, ma qui da noi il contesto è particolare. È quello che io definisco l’ottavo sacramento, cioè l’arte e la cultura. Proprio partendo da arte e cultura si è costruito un servizio alla persona.

In che modo è stato possibile questo tipo di servizio?

In tutto quello che avete sentito sul Rione Sanità c’è un concetto di fondo: la Bellezza può guarire l’uomo. È difficile immaginarlo dove stava don Pino, era sicuramente più faticoso rintracciarla. Qui invece il patrimonio storico-religioso permette ai giovani questa miscela particolare. Anche qui possiamo allora avere un effetto collaterale, ma se esso ci sarà non è quello il nostro primario interesse.

Qual è invece?
I ragazzi si sono posti il problema di come risolvere la speranza di questo quartiere e per far ciò si sono attaccati ai nostri beni artistici. Hanno fatto diventare la storia della cultura il motore per una rinascita della speranza nel quartiere.

Tutto questo è possibile perché c’è una presenza costante, quella della Chiesa, dei suoi sacerdoti.
Io ritengo ci sia la possibilità, attraverso questo strumento che si è scelto di utilizzare al massimo, di poter cambiare i cuori più strani. Ho visto ragazzi che avevano abbandonato la scuola tornare a studiare fino a laurearsi. Questo perché hanno capito il valore dello studio mettendosi in gioco. Ho visto più volte ragazzi che oggi sanno parlare diverse lingue e che avevano invece abbandonato la scuola al primo o secondo anno di istituto professionale perché non avevano nessuna voglia di stare seduti in un banco.

Queste sono cose che raramente si sentono dire o si leggono, piuttosto sembra che i giovani di questa città siano abbandonati a se stessi e preda della criminalità.
È proprio la motivazione che porta a un cambiamento culturale. Noi speriamo che questo discorso che piano piano sta contagiando il quartiere, possa portare a quello che a noi come Chiesa interessa, il cambiamento del cuore delle persone. Non credo però che questa possibilità – che questo succeda – vada considerata come preoccupazione primaria.

In conclusione?
In conclusione, per noi che oggi ci sia il figlio del camorrista che fa volontariato è addirittura banale. Il nostro ruolo è un ruolo di servi, quello che c’è da fare lo facciamo senza merito e senza l’aureola di eroe, perché altrimenti sfuma il nostro ministero. Siamo educati a rispettare le coscienze del prossimo e il creato. E tornando alla sua preoccupazione iniziale a proposito della Chiesa, la bellezza della Chiesa è proprio anche il fatto che a volte si possano commettere errori.