Negli ultimi anni in Italia si è sviluppata una martellante campagna mediatica contro l’obiezione di coscienza in un particolare ambito, quello della legge 194 che regola l’aborto: secondo la vulgata comune, sarebbero troppi gli obiettori di coscienza (innanzitutto i medici) che si rifiutano di eseguire le interruzioni di gravidanza, mettendo così a rischio addirittura l’applicazione stessa della legge.
Le due pagine che Repubblica ha dedicato all’argomento la settimana scorsa sono solamente l’ultimo esempio a riguardo: secondo il quotidiano gli aborti illegali sarebbero in aumento perché l’elevato numero degli obiettori renderebbe difficoltoso l’accesso al “servizio”, facendone per le donne che vi ricorrono una specie di percorso ad ostacoli, e favorendone di conseguenza il ritorno alla clandestinità. Ma i numeri, a guardarli bene, dicono altro: dalle relazioni annuali sull’applicazione della legge 194 presentate al Parlamento dal ministro della Salute emerge un quadro ben diverso da quello appena descritto. Cominciamo col dire che la raccolta dei dati sull’aborto in Italia è fra le più complete, aggiornate ed attendibili a livello internazionale.
Il dato più indicativo sull’accessibilità alla Ivg (interruzione volontaria di gravidanza) è il tempo di attesa delle donne, cioè il tempo che passa fra il rilascio del certificato da parte del medico e l’intervento vero e proprio, tenendo conto del fatto che la legge prevede sette giorni obbligatori – al di là di situazioni di urgenza – di pausa, per “soprassedere” ed evitare una decisione affrettata. Dai dati ufficiali emerge che non esiste alcuna correlazione fra il numero di obiettori di coscienza e il tempo di attesa delle donne.
Se a livello nazionale si parla in generale di un trend che ha visto negli anni un aumento di obiettori e una contemporanea diminuzione dei tempi di attesa (quindi un andamento opposto a quello prospettato nei giornali), quando si vanno a vedere i dati regione per regione, si trovano le situazioni più diverse. Ci sono regioni in cui, nel tempo, all’aumentare degli obiettori i tempi di attesa diminuiscono (per es. il Lazio) e regioni in cui al diminuire degli obiettori i tempi di attesa invece aumentano (per es. l’Umbria), contrariamente a quanto ci si aspetterebbe. Si trovano anche situazioni in cui aumentano sia obiettori che tempi di attesa, o altre in cui diminuiscono entrambi.
Ma non c’è correlazione diretta fra uni ed altri. Ci sono anche casi – ancora nel Lazio – in cui le stesse associazioni che protestano contro il ricorso massiccio all’obiezione di coscienza, riconoscono che una certa percentuale di non obiettori non esegue comunque Ivg.
Il dettaglio di questa analisi numerica si può trovare a pag. 35 del parere sull’Obiezione di Coscienza del Comitato Nazionale per la Bioetica, in una postilla a cura della sottoscritta.
In buona sostanza: l’accesso all’aborto dipende dall’organizzazione sanitaria di ciascuna regione, ed è il risultato di tanti fattori, non solo del numero degli obiettori di coscienza, che non risulta determinante.
La legge 194, infatti, prevede la mobilità in ambito regionale, proprio per favorire una distribuzione quanto più omogenea possibile del personale medico dedicato; inoltre si può assumere “a gettone”, cioè medici destinati solamente a questo tipo di interventi, a tempo determinato. D’altra parte non sarebbe possibile assumere dottori a tempo indeterminato a condizione che non siano obiettori di coscienza: anche ipotizzando che la normativa in vigore sul lavoro lo consenta – il che è tutto da dimostrare – non è consentito obbligare per sempre un medico assunto come non obiettore a rimanere tale (e viceversa).
Il diritto all’obiezione di coscienza, nel nostro ordinamento, è costituzionalmente fondato – come argomentato di recente anche dal Comitato Nazionale per la Bioetica, nel parere sopra citato – e non è possibile vietare a una persona, nel corso della sua carriera lavorativa, di cambiare la propria scelta da non obiettore a obiettore e viceversa.
Quindi finora in Italia il ricorso massiccio all’obiezione di coscienza non ha impedito l’applicazione della legge 194, per la quale i numeri mostrano, invece, a livello nazionale, un accesso alla Ivg che negli anni ha richiesto tempi sempre più brevi, pur con situazioni molto differenti se si guardano le singole regioni. Ma cosa succederebbe se il numero degli obiettori continuasse ad aumentare, e se un giorno non si riuscissero a trovare neppure i medici “a gettone”?
Per rispondere a questa domanda è sufficiente pensare a quanto avviene adesso in caso di sciopero: la sua efficacia – e quindi la forza della protesta – si misura solitamente dalla numerosità dell’adesione all’interno della categoria professionale coinvolta, e questo vale per tutti i lavoratori, dagli insegnanti ai medici passando per gli addetti ai trasporti.
Per esempio se uno sciopero ha adesioni dell’80%, o superiori, dei lavoratori interessati, le proteste non possono essere ignorate: le parti sociali e la politica sarebbero obbligate, giustamente, a intervenire, e non certo per obbligare chi protesta a fare quel che si rifiuta di fare. Tanto più se la protesta coinvolgesse intere categorie professionali, senza eccezioni.
Se questo già accade per questioni di tipo economico/contrattuale, a maggior ragione deve valere quando sono coinvolti così profondamente i convincimenti personali dei singoli, come nel caso dell’aborto, che comunque la nostra legge non prevede come diritto della donna, ma come estrema ratio.
Le categorie professionali chiamate in causa, quindi, dovrebbero interrogarsi seriamente sulle motivazioni di un ricorso così importante all’obiezione di coscienza, con onestà intellettuale, pronti a trarne le conseguenze, nella consapevolezza di tutti – dagli operatori sanitari stessi ai politici e agli intellettuali – che un diritto così prezioso, radicato nella nostra Costituzione, va difeso e tutelato sempre, senza se e senza ma.