Dà sicurezza sapere che ogni mattina nella cappella di un albergo tra le mura vaticane, il Papa celebra messa, e fa la sua omelia. Dà sicurezza sapere che ogni giorno, davanti alla gente con cui vive, commenta le scritture e fa il parroco, spiega, esorta, conforta, corregge. Nelle sue parole lo stesso segno dei discorsi preparati per i grandi eventi di popolo, le feste conclamate le cui immagini fanno il giro del mondo. Anche se vengono diffuse con sollecitudine, hanno un altro impatto, passano sotto silenzio, oppure sono spunto per qualche lancio d’agenzia, e ci paiono già lette, già sentite. 



Grossolano errore, perché è nella quotidianità più semplice, domestica, che questo Pontefice parla con voce davvero sua, insistendo su ciò che più gli sta a cuore. Da Santa Marta allora, quotidianamente, ci arriva la sua teologia francescana e gesuita, questo singolare abbraccio tra due formazioni spirituali, tra due visioni di Chiesa che vengono contrapposte nei libri di storia, ma che solo insieme reggono la sua bimillenaria vicenda terrena e celeste. 



Ieri, 28 maggio, si leggeva nella liturgia un pezzettino del Vangelo, una domanda impertinente, ma al solito disarmante nella sua sincerità, di Pietro. Cos’avremo in cambio noi che abbiamo lasciato tutto per seguirti? La tentazione del potere, magari nella forma di un giusto risarcimento per tanti sacrifici. Avrete molti doni, insieme a persecuzioni, si sente rispondere. Perché, spiega Francesco, qualcosa non va se per un cristiano tutto va bene nella vita. Forse è troppo amico dello spirito del mondo. Forse si ferma dove la strada si fa più dura, riducendo la sua fede all’adesione a una proposta culturale. Seguire, va bene, ma fino a un certo punto: fino a quando mi serve, si potrebbe suggerire, finché non è troppo difficile. 



E invece, la croce non si può togliere, non solo perché ineludibile dalla vita dell’uomo, di ogni uomo, ma perché seguire Gesù non è una scelta facile. Una bella bacchettata a potenti di ogni epoca, principi, chierici, convinti che nella Chiesa si può fare carriera. Dai don abbondi di vecchia data ai più disinvolti frequentatori delle plateee televisive, da chi cerca i seguiti di piazza a chi si isola nella torre d’avorio dell’intellettualismo. E qui il Papa, con un apparente salto logico, spalanca l’orizzonte del nostro tempo tiepido, povero d’anima, capace di sfruttare tutto, di fingere  accondiscendenza e comprensione, per sopire, troncare, rendere non incidente e vomitevole anche la fede. 

Che non disturbi, o peggio, che serva. Una fede da giaculatorie, al più da irridere, ma che non preoccupa, perché non cambia il mondo; oppure una fede che è prima di tutto e soprattutto opere, anche se si dimentica il dove e il perché queste opere possono nascere. Radicate in un sì totale e che “primaeira”, come dice il suo fiorito spagnolo, cioè vien prima di tutto. 

Cita Madre Teresa, il Papa, ovvero la donne che in tempi a noi vicini ha incarnato la dedizione francescana agli ultimi, ai derelitti, ai reietti, dalle leggi, dal welfare, dalla cultura. I malati, certo, i bambini nel grembo materno, o quelli nati sbagliati, si direbbe, nati diversi. Anche di loro ebbe una cura strenua e testarda, Madre Teresa, e non lo si ricorda spesso. Che gran donna, madre Teresa, che coraggio, che devozione. 

Eppure, dice il Papa, “lo spirito del mondo mai dice che ogni giorno stava in orazione, tante ore…  Mai! Riduce al fare bene sociale l’attività cristiana. Come se l’esistenza cristiana fosse una vernice, una patina di cristianesimo”. Abbiamo già sentito il Papa commentare una Chiesa trasformata in “una ong pietosa”, sfruttabile in sostituzione di un carente stato sociale, ma dimentica dell’origine della sua forza di carità e cambiamento. L’ha detto più di una volta. Però paga di più soprassedere,  calcare la mano sul Papa dei poveri, sulla Chiesa dei poveri, che queste venature mistiche dipendono dall’educazione latina, da una debolezza latina, dall’età, vatti a sapere. Come l’invito al Rosario, la messa in guardia davanti al diavolo, l’adorazione…roba vecchia. 

La Chiesa dev’essere anzitutto dei poveri. Di spirito. E i poveri spesso lo sono di più. Ma tocca dirlo, in questi ultimi giorni abbiamo sentito questo rischio, abbiamo visto gli applausi per l’opera, per un ben fare, e mi riferisco ai funerali di don Andrea Gallo, o anche alla beatificazione di don Pino Puglisi. I giornali li hanno accostati,  innalzati entrambi agli altari, con un’operazione astuta e sottile di contrapposizione alla Chiesa ufficiale, che pure si è inchinata con misericordia davanti all’uno e inginocchiata davanti all’altro, nel sancirne la santità. Perché di don Gallo la cosa più notevole l’ha detta forse inconsapevolmente Vladimir Luxuria, prima di mettersi in fila fuori luogo per ricevere la Comunione: “Ci ha fatti sentire creature di Dio”. Questo è stato il suo compito di prete, e questo conta, non la partecipazione ai cortei o la difesa a modo suo dei poveri, tra cortei, slogan di partito e provocazioni di piazza. Don Pino Puglisi, martire in odium fidei, non è stato un prete antimafia. È stato un prete che ha svolto il suo compito di prete, educando alle virtù cristiane, soprattutto i bambini, i ragazzi. E la fede non è compatibile con la criminalità organizzata, che infatti l’ha fatto tacere. Ma non è un simbolo della legalità, è un testimone di Cristo. Ah, sì, ha fatto tante belle cose agli altri…direbbe il Papa, con il suo linguaggio semplice e immediato. Ma solo perché era in comunione con Dio, deciso a seguirlo anche dove il cammino si fa erto e oscuro.  

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