In molti abbiamo visto in rete il video in cui Piera, una malata terminale, racconta della sua decisione di farla finita, perché la sua sofferenza non ha senso: sappiamo che dal suo paese natale, Chirignano in provincia di Venezia, si è recata in una clinica svizzera dove, il 29 novembre scorso, si è suicidata in una clinica specializzata, così come consentito dalla legge elvetica.
Il filmato è all’interno di una campagna a favore dell’eutanasia, promossa dai radicali, e presentata come l’ennesima battaglia sui “nuovi diritti”.
Ma c’è ben poco di nuovo, e certo non ci sono nuovi diritti da rivendicare. Si tratta piuttosto di un problema antichissimo: quello degli aspiranti suicidi, cioè di persone che, per motivi diversissimi – per una malattia, per sofferenza psicologica, per problemi economici, sempre per disperazione – scelgono di porre fine alla propria vita.
Il primo equivoco da sfatare è che darsi la morte sia un nuovo diritto, una libertà “positiva”. Noi abbiamo sempre avuto la libertà di rischiare la vita, di andare in motorino senza casco, di drogarci, di farci del male in qualsiasi modo e anche di ucciderci volontariamente. Mi domando quindi come si faccia a considerare tutto ciò come una novità e un allargamento della libertà personale, solo perché in questo caso qualcuno ti aiuta a farti del male, addirittura a toglierti la vita. Attraverso l’eutanasia, in realtà, si attua una dinamica ben diversa: la comunità si scarica della responsabilità morale e materiale di aiutare una persona in gravi difficoltà, e gli offre in cambio un incoraggiamento alla morte. Finora di fronte a qualcuno che cercava di uccidersi si è sempre intervenuti per trattenerlo, per impedirgli di compiere il gesto disperato.
La coscienza dell’individuo si ribella spontaneamente all’idea che un essere umano muoia nell’indifferenza degli altri. Abbiamo visto recentemente molti imprenditori che si sono suicidati: la questione è finita sui giornali, e il fatto è stato interpretato giustamente come un problema che interpella e coinvolge tutti, i parenti, gli amici, ma anche la società intera, che non è stata in grado di aiutare queste persone.
Finora aiutare l’aspirante suicida significava aiutarlo a non suicidarsi. Oggi invece può significare che lo si vuole aiutare a morire, e non a vivere. Si sta tentando di trasformare la questione dal punto di vista semantico, per coprire un sostanziale abbandono, incoraggiando una forma di deresponsabilizzazione collettiva. E’ molto più facile aiutare qualcuno a morire piuttosto che a vivere: nel primo caso basta porgergli un bicchiere con la sostanza letale, nel secondo bisogna offrire fratellanza, solidarietà, farsi carico delle sue sofferenze e dei suoi problemi, saper consolare e condividere.



Le sofferenze fisiche non sono il vero problema, in primo luogo perché ormai le cure palliative e le terapie del dolore hanno fatto grandi passi avanti, e sono in grado di alleviare qualunque male fisico. Piuttosto, magari insieme alla malattia e al dolore, c’è la paura, la solitudine, il senso di inutilità e di vuoto, il male dell’anima. Di questi disagi morali è giusto che una comunità solidale sappia farsi carico, anche a livello dei normali rapporti umani. Dire sì all’eutanasia significa rifiutare un aiuto a questo livello, e farne invece una questione burocratica. Chi difende la cosiddetta “morte dolce” sa che si svolge secondo un rituale preciso e asettico, che si deve compilare un questionario, che c’è un’assistenza specializzata ma senza calore e partecipazione. 
Si arriva a prescrivere che il bicchiere con la bevanda che contiene il sedativo mortale, debba essere preso dalla persona che si suicida, che deve essere quindi autosufficiente, in grado di bere da sola, perché la responsabilità deve essere totalmente sua. E’ il trionfo di quella grande illusione che viene definita “autodeterminazione”, e che finisce spesso per sfociare nell’abbandono e in un’estrema solitudine.

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